Intervista a Robert Bernocchi (Mymovieslive) su eccezione culturale, cinema e larghi dintorni.
Sulla scia del dibattito intorno all’opportunità dell’eccezione culturale riservata ai prodotti cinematografici europei, abbiamo chiesto a Robert Bernocchi, responsabile acquisizioni della piattaforma Mymovieslive ed interprete dei dati del boxoffice, lo stato di salute attuale del cinema internazionale. Anche nelle interviste conserva quel tono diretto che ritroviamo negli interventi del suo blog, grazie al quale cavilli e sottigliezze vengono alla luce con la giusta nettezza. L’istantanea ritrae un settore sospeso tra progressivi miglioramenti e indubbie contraddizioni, in cui è difficile comprendere quando l’intervento dello Stato diventi assistenzialismo mortifero o al contrario sia fin troppo leggero nel sostenere i prodotti dalle spalle meno larghe.
Partiamo dalla cronaca: ci sono stati strascichi legali sulla questione di alcuni premi d’incasso che lo Stato non ha corrisposto?
Sì. Il premio degli incassi in sé è ancora valido, solo che sono stati sospesi dei pagamenti e alcuni produttori, tra i quali De Laurentiis, hanno intentato causa, vincendo.
Di norma il premio d’incasso, tra l’altro, permette allo Stato di recuperare i soldi che ha investito. Per fare un esempio, se il film da te prodotto ha avuto successo, si calcolerà con un’aliquota il tuo premio. Se ammonta a 800.000 €, ma ne hai ricevuti inizialmente 600.000 di finanziamento, lo Stato recupera interamente quest’ultima cifra lasciando poi il resto per il produttore. L’elemento positivo è il riconoscimento del merito di chi, come il proprietario di Filmauro, ha sempre incassato garantendo anche linfa al fisco. Mi sembra giusto perché non si premia solamente chi fa solo opere prime e seconde, sapendo che quasi mai rivedrai quei fondi.
Anche se rafforzano il settore nella sua globalità, i premi d’incasso però vanno a vantaggio di soggetti già forti.
Non c’è una risposta univoca a questo dilemma. Ci si trova a dover scegliere tra elementi positivi e altri negativi. Secondo me è importante sostenere anche l’autore affermato quando fa qualcosa di diverso, rischioso e anche internazionale, come nel caso di “Educazione siberiana” per Salvatores o “La miglior offerta” per Tornatore. Sono casi interessanti. È ridicolo sovvenzionare commedie, come in passato è accaduto per Brizzi, Veronesi o Verdone. Sono film che circolano solo in Italia, firmati da chi raccoglie una forte tradizione – come Verdone appunto – lunga trent’anni: non ha molto senso garantire questa tutela. Oltre tutto per il Fus ci sono cifre sempre meno consistenti.
Quando c’è stato un taglio dei fondi nel 2009 si mobilitò tutto il cinema italiano in segno di protesta, eppure nelle due annate a seguire, 2010 e 2011, si sono registrati dati positivi per il prodotto nazionale.
Si, anche se sarebbe assurdo sostenere che meno soldi diano vita a progetti più vantaggiosi. Ciò che invece ha rappresentato una svolta è stato il tax credit dove non ci sono finanziamenti diretti e chi investe, sebbene abbia vantaggi fiscali, rischia davvero. Stando all’ultimo rapporto dell’Ente dello spettacolo in realtà gli investimenti a favore del cinema italiano sono aumentati proprio grazie a delle realtà private, in qualità di tax credit esterno, tra cui banche e compagnie assicurative che prima ovviamente non si occupavano di cinema. Hanno portato dei soldi freschi su progetti in cui c’è una maggiore attenzione al rapporto costi/ricavi. L’unico problema di chi investe col tax credit esterno è che lo fa soprattutto su film sicuri, non su opere prime o seconde. Per esempio “Benvenuti al Nord” ha attirato investitori privati, eppure non ne aveva bisogno. Potrebbe essere opportuno introdurre sgravi anche superiori per opere meno forti. Per quanto riguarda i finanziamenti diretti, rispetto agli anni novanta si garantiscono meno soldi a più titoli e l’intervento pubblico è diventato sempre meno determinante. La conseguenza per le opere prime e seconde è che si creano tanti piccoli film dal fiato corto, senza contare la difficoltà di promuoverli adeguatamente. Escono magari in dieci sale e scompaiono dopo una settimana.
In passato capitava che lo Stato finanziasse budget interi…
In base alla Riforma Urbani del 2004, non si può finanziare più del 50% di una produzione. Quello che ora viene evitato è che si dichiari un budget maggiore di quello effettivo, anche doppio, finendo così realmente per finanziare tutta una pellicola solo con soldi pubblici.
Intorno al dibatto sull’ eccezione culturale, c’è stata anche una levata di scudi a favore del libero mercato, della concorrenza, ritenuta molto più efficace del sostegno statale.
In linea di principio sarei abbastanza d’accordo. In un mondo ideale partiremmo tutti con le stesse possibilità, ma nel mondo reale no. Per chi fa opere prime e seconde, per chi non fa commedie, o in genere chi non ha l’interesse di Rai o Mediaset, è molto difficile lavorare. Che ci sia un sostegno dello Stato non lo trovo sbagliato e penso anche che le nuove norme siano quelle più intelligenti, cioè appunto non finanziamenti a fondo perduto. Un errore che si fa spesso è considerare le Film Commission come aiuti statali alla maniera di quelli del Mibac, mentre invece sono fondi accordati a film che magari portano sul tuo territorio una troupe di 50 professionisti, con tutto l’indotto che ne deriva, e poi le opere promuoveranno i luoghi della regione. In ogni caso, criticare i fondi pubblici è giusto in linea teorica, mentre nella pratica risulta un po’ eccessivo. Il problema delle associazioni cinematografiche e del mondo del cinema in generale, è che non riescono bene a comunicare la realtà dei fatti. Non si riesce a smentire l’idea che lo Stato finanzi ancora i film di Marina Ripa di Meana o Roberto D’Agostino. Ciò non avviene più, a parte rari casi quali alcune pellicole di Renzo Martinelli finanziate da Rai Cinema sotto l’influenza di dinamiche politiche. Va detto però che, da un anno a questa parte, Rai Cinema sta lavorando molto bene, mediando bene tra film più commerciali e prodotti d’autore.
Guardandoci indietro, tutta l’opera di ristrutturazione del finanziamento pubblico, è stata messa a punto dai governi Berlusconi?
Sì, prima la riforma Urbani e poi l’introduzione del tax credit.
Mentre il governo Monti ha deciso di imporre alle televisioni di investire una quota fissa nelle produzioni cinematografiche nazionali. È giusto?
Anche in questo caso, in un mondo ideale una televisione dovrebbe poter decidere come meglio impiegare le proprie risorse. Però non dimentichiamo che sia Rai che Mediaset per decenni hanno contato sul cinema per i propri bilanci con passaggi televisivi di film, senza dover reinvestire in maniera massiccia poi nel cinema stesso. È positivo che ci siano degli obblighi fissi, perché è fondamentale per l’industria sapere di avere delle risorse certe, che non cambino drasticamente di anno in anno. In realtà forse se n’è discusso anche troppo perché questa stabilizzazione per legge dell’investimento televisivo nel cinema non è molto distante dalle cifre che venivano riservate finora. Ora questa costrizione risulta decisiva perché Mediaset ha intenzione di ridimensionare i progetti cinematografici, come già visto nel recente listino Medusa. Tuttavia, come spesso capita, si fanno discorsi più ideologici che concreti, qualunque posizione si voglia difendere. A dispetto di quanto dichiarato tante volte, questa misura non è lontana dalle normative in vigore in tanti altri paesi europei.
Cosa pensi del sistema francese?
Non sono convinto che il modello francese funzionerebbe bene in Italia e secondo me ne notiamo solo gli aspetti migliori e quelli più appariscenti: una quota di prodotto nazionale del 40%, circa 200 milioni di biglietti venduti all’anno. Sono numeri di un volume di affari impressionante, ma è anche vero che deriva dai finanziamenti legati alla tassa di scopo che mette in circolo circa 800 milioni: cifre enormi. I risultati che si ottengono sono molto interessanti, ma se si pensa che nel 2011 la nostra quota di cinema nazionale in Italia era del 37%, poco meno di quella francese, ma ottenuta con ben altra mole di finanziamenti pubblici… Oltr’alpe siamo verso uno statalismo forse un po’ estremo, soprattutto se visto con gli occhi di chi non fa cinema. L’anno scorso in Francia si contavano circa 300 film prodotti e, dopo un passaggio in sala, il loro sistema impedisce di distribuire il film su piattaforme SVOD per tre anni o più, il che è a dir poco restrittivo. Se escono 25 film ogni weekend, è difficile che vadano tutti bene. Aggiungo anche il fallimento della legge Hadopi e della struttura che ci stava dietro, costata decine di milioni di euro e che ha prodotto un’unica multa di 150 euro. Lo avessimo fatto noi in Italia, sarebbe stato considerato un carrozzone statale, utile per piazzare gli amici…
Questi scompensi servono poi a creare il terreno per risultati sorprendenti …
Certo, “Una separazione” ha avuto un milione di presenze, un dato straordinario. Recentemente in un multisala di Parigi di ventidue schermi ho visto “Le passé” di Farhadi in una sala di 500 posti, tra l’altro quasi piena. Questo in Italia sarebbe impossibile. Molti film francesi però non sono molto lontani dai baracconi dei Vanzina o dei prodotti analoghi che produciamo noi.
Ma, nonostante la tassa di scopo, lì il cinema Usa ha comunque un pubblico enorme.
Sì, e finanzia sale d’autore, per questo viene il sospetto che sia un mercato drogato. Bisogna ricordare che per prodotti non esattamente di largo richiamo c’è un pubblico importante, come “Un sapore di ruggine e ossa” di Audiard che ha staccato quasi due milioni di biglietti, dato che da noi ottiene Siani. Il pubblico è diverso. Applicando le stesse regole in Italia un film come “Miele” di Valeria Golino, per esempio, non otterrebbe un risultato di molto maggiore alle centomila presenze attuali. Né si potrebbero creare in poco tempo queste condizioni, il che è dovuto a motivi che vengono da lontano.
Il lato positivo di produrre così tanto è la nascita di una tecnica cinematografica che solo “facendo sistema” può proliferare…
Sì, per esempio in Francia c’è una varietà di genere inimmaginabile per noi. L’anno scorso, su 100 progetti finanziati dal Mibac, solo un numero irrisorio era di film “di genere”. Solitamente ottiene il finanziamento chi ha un produttore importante alle spalle o chi sceglie di raccontare storie drammatiche, di impegno, dalle implicazioni sociali e politiche. Dispiace soprattutto se il ricordo va a quando eravamo maestri del cinema di genere. Come ho ricordato in un articolo, fu cruciale la legge Corona del 1965, nata con l’intento di preservare prodotti interamente italiani, un po’ nello stesso spirito con cui oggi si sostiene l’eccezione culturale: si ottenne l’effetto di rovinare il nostro mercato internazionale. Prima avevano successo in tutto il mondo pellicole considerate italiane alle quali, col sopraggiungere di questa legge e dei suoi parametri autarchici, fu negato il marchio d’italianità e, di conseguenza, cessò il sostegno alla loro produzione. Dino De Laurentiis non si limitò solo a criticare questa decisione, ma preferì andare a lavorare fuori. Tutto ciò ha favorito il ripiegamento verso il mercato interno, che poi è il problema che abbiamo tuttora. Magari incassiamo qui, ma all’estero i nostri film non hanno la stessa fortuna o nemmeno arrivano.
Cosa ne pensi delle recenti dichiarazioni di Spielberg e Lucas ?
Le ho trovate molto confuse e apocalittiche. Non tanto da parte di Spielberg, perché durante gli anni ha accettato non pochi rischi come l’ultimo film su Lincoln, anche se è il proprietario della Dreamworks, quindi non è propriamente un piccolo regista. Lucas invece ha creato per trent’anni solamente progetti legati a Star Wars, per questo sorprende che da lui arrivi la critica al cinema americano basato soprattutto su blockbuster. Forse non è esente da colpe per un tale stato di cose. A me piacerebbe credere che i film dal grandissimo budget siano ormai in declino e che non interessino più, ma quando si guarda ai dati d’incasso non è affatto così. Ci sono, sì, dei flop, ma fa parte di una ciclicità che permette poi ad uno studio di recuperare con altri prodotti in seguito. Non vedo crolli imminenti.
Ora il cambiamento è forse il forte peso del mercato estero per le major americane?
Erano abituati per decenni che il mercato interno fosse quello essenziale, mentre ora ci sono film che ottengono il 75% degli incassi dall’estero. Sarebbe stato interessante sapere l’idea di Spielberg e Lucas a riguardo. Non a caso film come quelli della saga di “Fast and Furious” presentano un cast multietnico. Incontriamo molti attori asiatici, anche in ruoli di contorno, mentre prima non era così ricorrente.
Spielberg dice anche che Hollywood non credeva nel suo “Lincoln”, in pratica già destinato alla televisione, mentre poi la distribuzione in sala ha portato ad un solidissimo incasso di 180 milioni di dollari. In sede produttiva non si è vittime talvolta di un’idea di pubblico che non esiste?
Sì, c’è sicuramente un’omologazione. I produttori hanno paura di sbagliare e di andare controcorrente. Spesso se va male un blockbuster dall’esito sicuro si accetta di più l’insuccesso senza ricercare responsabilità, mentre se c’è un flop con un film rischioso il produttore paga eccessivamente le conseguenze. Nell’ultimo anno mi ha sorpreso che un film come “Ted” non sia stato fatto dalla Fox, la major più naturale per produrre il primo film di Seth Macfarlane (autore de “I Griffin” e “American dad”, cartoni animati firmati dal gruppo Fox n.d.r.), ma hanno pensato sbagliando che fosse un investimento troppo rischioso. Certo, produrre film a medio budget è il vero problema attuale del cinema americano. Magari a causa dell’assenza di una star assoluta e di una storia difficile da vendere, questi film trovano maggiori ostacoli. Poi non sempre di medio budget si tratta, perché vanno aggiunti i costi di promozione che possono far lievitare l’investimento a 150 milioni di dollari.
A proposito di promozione, ritorniamo al cinema italiano: perché non stanziare fondi pubblici specifici per la promozione, magari anche di film meritevoli, difficili, ma prodotti con risorse private?
C’è questa visione sbagliata che focalizza tutto sulla produzione del film, tralasciando il suo cammino dopo il montaggio finale. Nel piano industriale del Ministero ci dovrebbe essere più cura per chiarire quali siano i piani di promozione riservati dai produttori per i propri progetti, forse sostenendoli anche in questo. Una stortura prevede l’obbligo, per chi è sostenuto dal Ministero, di uscire in un numero minimo di sale per un numero minimo di spettacoli. Il risvolto paradossale è che, talvolta, il produttore è costretto a pagare gli esercenti appositamente per avere diritto al sostegno pubblico. Vige ancora questa condizione, nonostante le richieste di correggerla da parte di alcuni giovani produttori. La soluzione potrebbe essere l’apertura a una distribuzione online, che sostituirebbe o affiancherebbe l’obbligo di passare in sala. D’altronde, perché va bene qualche passaggio a metà agosto in pochi schermi di alcune città e non invece una diffusione su Internet, in grado potenzialmente di arrivare a tutta la popolazione italiana?
È possibile in Italia il successo di un film dal budget irrisorio, seguendo il caso di Paranormal Activity costato 15.000 $ ?
Temo di no, e soprattutto non credo avverrà per un film horror. Mentre negli Usa hanno dimostrato di saper usare il web, in Italia molte case di distribuzione ancora lo utilizzano come un mezzo un po’ alieno. E su internet non si può vendere tutto, infatti una storia come Paranormal Activity può essere pubblicizzata bene sulle piattaforme online, ma un film che racconta la disoccupazione giovanile risponde meno a questa caratteristica. Il problema è che molte opere prime e seconde sono fatte per un mercato che non esiste. Capita di vedere film italiani che non usciranno in sala, alcuni anche brutti, ma soprattutto che non sono stati fatti chiedendosi quale target “prendere”. Al di là della qualità, queste opere avrebbero difficoltà ad essere vendute pur contando su una grande distribuzione online e, probabilmente, anche quella classica non servirebbe a nulla.
autore: Roberto Urbani