L’anno scorso, sul palco di questo stesso festival, si consumò un delitto: nel bel mezzo di un duetto sulle note di “Twist and shout” con Sir Paul McCartney, al “Boss” fu letteralmente staccata la spina, per aver “sforato” di qualche minuto. Si sollevò, ovviamente, un polverone, e gli organizzatori furono attaccati su ogni fronte (persino il sindaco di Londra ci tenne a sottolineare quanto quelli dell’Hard Rock Calling fossero stati assurdamente fiscali).
Come si legge sul programma del festival, quest’anno il Boss torna all’Hard Rock Calling perché ha del “lavoro in sospeso”. Per precauzione la location si è spostata dal centralissimo Hyde Park al “Queen Elizabeth Olympic Park”, nell’immenso villaggio olimpico che da quasi un anno non vedeva anima viva. E’ una splendida (rara) giornata di sole, e quindi ci sono tutti i presupposti per un evento che fili liscio e senza intoppi. Ed infatti così è stato.
In tendoni mezzi vuoti (la maggior parte del pubblico è probabilmente sdraiata a prendere il sole o a mantenere la posizione sotto il palco principale) si alternano band emergenti (c’è il palco delle “nuove promesse”, tra cui spicca il nome dei nostrani… Negramaro!) e piccole “chicche”, come i leggendari Flamin’ Groovies, per la prima volta in U.K. dopo trent’anni.
Sono da poche passate le quattro di pomeriggio quando il pubblico assiepato davanti al palco principale viene travolto dal calore blues di “Hold On” degli Alabama Shakes. Un concerto, il loro, perfetto da godersi sdraiati sul (finto) prato, senza impegno: la voce di Brittany Howard anche dal vivo è spettacolare, ma alla lunga le canzoni risultano un tantino ripetitive. Non ho mai trovato interessanti i Black Crowes, ed infatti credo di essermi addormentato durante una delle loro interminabili cavalcate strumentali, per poi risvegliarmi travolto dall’entusiasmo del pubblico per la loro versione di “Hush” di Billy Joe Royal in conclusione del loro set.
Alle sette e dieci in punto, col sole ancora alto, fanno il loro ingresso sul palco il Boss e la sua E-Street Band. Diciassette musicisti in tutto. Nessuna scenografia, nessun effetto speciale. L’unica “aggiunta” al palco è una pedana che consente a Bruce di scendere al livello del pubblico, dove è posizionato un secondo microfono.
Dalle prime note di “Shackled and Drawn”, e dalla reazione del pubblico, capisco subito che sto per assistere a qualcosa di speciale.
Non sono un fan accanito di Springsteen, e non l’avevo mai visto live. Avevo letto e sentito parlare spesso, con incredibile entusiasmo, dei suoi lunghissimi concerti, e del fatto che dal vivo il Boss è “tutta un’altra cosa”.
Beh, ora vi posso dire che fareste meglio a dar retta ai vostri amici fan del Boss, quando condiscono i loro racconti dei suoi concerti con aggettivi esagerati, o ancora meglio quando cercano di convincervi ad andare a un suo concerto insieme a loro.
Un concerto di Bruce Springsteen è essenzialmente un viaggio, intenso ed emozionante, tra le mille facce e i suoni d’America. Vi trovi l’essenza del rock and roll, così come il suono degli immigrati irlandesi (“Death to My Hometown”) e quello del blues più viscerale (“Reasons To Believe“). Un viaggio durante il quale il Boss ti racconta storie di disperazione e violenza (“Johnny 99“), e di lunghe traversate su highway sconfinate (“Born To Run“), della desolazione della provincia (“My hometown“) e di una Nazione che prova a rialzarsi dopo un terrificante attentato (“The Rising“). I protagonisti delle sue storie sono persone ordinarie (“Working on the Highway“), e le strade in cui si muovono i suoi personaggi sono raramente quelle scintillanti delle grandi metropoli.
Il Boss suona per più di tre ore, senza pause. Senza un attimo di cedimento, senza che ci sia un solo istante di calo di tensione. Invita la sua anziana madre a ballare con sé “Dancing in the dark“, prende sulle spalle una bimba del pubblico per farle intonare, dal palco, “Waitin’ On A Sunny Day” e accontenta le richieste di canzoni che i fan delle prime file, come da tradizione, gli manifestano con cartelli di ogni forma e misura. Il Boss regala sorrisi, emozioni, lacrime, pelle d’oca. Anche tutte queste cose assieme nel tempo di una sola canzone. Attorno a me ci sono signori che piangono come dei bambini, coppie che ballano felici, signore sulla cinquantina con le loro madri che cantano ogni singola strofa.
Il Boss decide che stasera gli va di suonare tutto l’album “Born in The U.S.A.” dall’inizio alla fine, e tre generazioni di fan urlano di gioia quando lo annuncia dal palco. L’empatia tra questo splendido sessantenne e le decine di migliaia di persone che gli stanno davanti è qualcosa d’indescrivibile. Il popolo di Springsteen pende dalle sue labbra, è pronto a cantare a squarciagola insieme a lui, a saltare e battere le mani a tempo per poi subito dopo ammutolirsi per godere in religioso silenzio delle canzoni più sussurrate (“I’m on Fire“, la conclusiva “My Lucky Day“, per sola voce e chitarra). Uno spettacolo incredibile, semplicemente uno dei più bei concerti che abbia mai visto. E pensare che un amico, fan sfegatato, al trentesimo concerto del Boss (sesto solo in questo tour), il giorno dopo mi fa: “ieri l’ho visto un po’ fuori forma, come se fosse stanco”. Da quel momento non faccio altro che pensare a cosa possa essere un suo concerto in un “giorno di grazia”, allora.
autore: Daniele Lama