Andrew Wyatt ha composto un capolavoro. Perché nasconderlo? Spesso si ha paura di scrivere quella parolina: capolavoro.
Oggigiorno, è vero, sentiamo parlare di esemplari irripetibili in tutte le arti, non riconoscendo talvolta la ripetizione, la ciclicità, il manierismo dietro certi taglia e cuci o esperimenti da laboratorio. Wyatt di tutto questo scientismo da strapazzo se ne frega altamente.
L’ultimo lavoro è acclamato dalla critica e sicuramente molti lo inseriranno tra gli album più intelligenti del 2013 – io lo farò di sicuro – perché ci troviamo di fronte ad una verifica pop con un valore aggiunto rispetto alla massa fruibile.
Provate a coniugare il sincretismo musicale di Peter Gabriel con la profondità neoclassica di Julia Kent o ancora meglio di Arthur Russell, il pop e la scrittura arguta con la musica contemporanea del Novecento.
Bisogna tuffarsi nel mare dei desideri, concepito a bella posta per una morte col sorriso, di In Paris they know to build a monument, nella sintetica sporca di Cluster subs per poi prepararsi alla partitura di She’s changed che frammenta e ricompone l’atonalità. Solo a questi livelli assaporerete la genialità compositiva che intreccia romanticismo e simbolismo, potenza ed evanescenza.
C’è Manhattan in questo album, i suoi rumori al pari dei suoi limitati silenzi. Magari la Manhattan degli anni ’70 vista attraverso l’occhio di un Feldman o di un Guston. Ma c’è tutta l’America, dalla music hall jazz di Gershwin agli adagi di Barber. È musica continentale compressa in capsule di note talune accavallate, tal altre ribattute come in And septimus…
Ogni brano subisce la pressione delle dissonanze che poi rinascono e si ricongiungono con le assonanze in un’incessante proposta di godibile cantabilità. In It won’t let you go, ad esempio, i violini si rannicchiano sui semitoni per riaffacciarsi dalla terrazza del mondo con toni pieni e limpidi che accarezzano l’espressionismo astratto – sentire dal secondo minuto e mezzo in poi cosa succede al corpus musicale.
Non ci sono gestus o leitmotiv in queste partiture che volutamente si smarcano da visioni di insieme assolute – sentire la disorganicità dell’organo in Descender (death of 1000 cuts) – perdendosi in una poliritmia dvorakiana.
Wyatt è capace di riprodurre una schietta monumentalità come accade in There is a spring, perché sostanzialmente il newyorkese sa fare tutto, ma questo Descender rimarrà splendido per la sua irresolutezza, simile alla confessione di un condannato a morte che però in fondo in fondo non ci ha detto proprio tutta la verità.
Ci lascia sospesi, come teneramente ci dimostra il preludio di Horse latiutudes che percorre amabili e sostenuti, sfumando i vocalizzi e riempendoci la testa di sensazioni precarie e ridondanti. Qui tutto è smussato e ricomposto poi, perché ogni nota è libera di esprimere le proprie insicurezze. Descender è una metafora dei nostri tempi.
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autore: Christian Panzano