Noti per le loro cover immaginifiche, stavolta si presentano per il nuovissimo album Kveikur (uscita 18 giugno) con una inquietante copertina minimal in bianco e nero, che ritrae un ragazzo mascherato che ricorda Elephant Man di David Lynch.
I tre islandesi che più di tutti hanno contribuito in questi anni a creare un nuovo genere musicale, l’Icelandic appunto, tornano sulle scene (e anche in Italia con l’ormai consueto appuntamento dei tre festival di Ferrara sotto le Stelle, Lucca e Rock in Roma alle Capannello a fine luglio) con un nuovo disco, ancora con la EMI/XL recordings.
Devono recuperare le delusioni cocentissime di Valtari, disco dell’anno scorso, uscito dopo una lunga pausa di quattro anni e francamente poco entusiasmante; devono riappropriarsi del genere che hanno inventato, dopo che dal loro primo successo internazionale, Agaetis Byrjun, a inizio millennio, sulla loro scia si sono affacciati moltissimi artisti dal polo nord europeo, da Olafur Arnalds a HK119, da Olof Arnalds ai recentissimi Samaris.
La prima buona notizia è che Brennisteinn, il primo singolo uscito a marzo, è anzitutto una canzone: c’è tutto, batteria, chitarre, la voce di Jonsi, insomma, tutto quello che serve a rendere un prodotto sonoro da studio una canzone vera e propria. Cosa che mancava in ogni pezzo di Valtari. Brennistein non è solo questo però: è anche un ritmo post-industriale, quasi post-catastrofico, con atmosfere cupe, consuete ai Sigur Rós quando si tingono di scuro, che qui sembrano da ambientazione di una metropoli notturna, ben lontana dalla tranquilla Reykyavik di provenienza. E poi Brennistein contiene pure una novità: il progressivo delle chitarre a metà pezzo permette di definirla la canzone più rock della band, che nei precedenti sei album (tanti sono dall’esperimento di Von nel 1999 al successo mondiale di Agaetis Byrjun, ( ), e Takk fino agli ultimi due dischi sottotono), non si erano mai spinti fino a tanto.
Hrafntinna segna già una svolta: un ritmo quasi ineffabile di triangoli e piatti appena sfiorati conduce la voce di Jonsi verso un percorso che ricorda le canzoni cupe della seconda parte di ( ), ma la buona notizia resta confermata: la voce bianca di Jonsi, differentemente dal solito, è qui protagonista e non lascia molto spazio agli intermezzi soltanto strumentali, spesso incompiuti, del loro precedente lavoro.
Segue Isjaki, il secondo singolo, che sorprende per essere un episodio fresco, allegro e particolarmente pop, suddiviso piuttosto regolarmente fra strofa e ritornello con variatio finale (anche la durata della canzone, contrariamente al loro solito, è “normale”, attestandosi sui cinque minuti), ma di quel pop raffinato e lezioso che i fan conoscono già da Takk. C’è da scommettere per la sua fruibilità che di questo disco sarà la canzone più scelta come soundtrack per film e telefilm, particolare a cui i Sigur Rós sono ormai abituati.
Yfirborö è invece, fin qui, la più vicina alle melodie epiche abituali ai Sigur Rós, come anche Stormur, (benché la linea di canto qui sia più convenzionale del solito), mentre di contrasto Kveikur è la più lontana, e riprende i ritmi industrial di Brennistein. Che proprio per questo Jonsi, Orri e Georg l’abbiano voluta come title track? Non sappiamo, ma di certo è questo il nuovo mini-filone che dà il taglio al nuovo disco dei Sigur, e stimola appetito e curiosità dei fan. Tornano infatti le chitarre e le distorsioni udite a inizio disco, e tornano vaghe contaminazioni di kraut-rock. Che sicuramente giovano, perché se c’era un rischio nella carriera dei Rós è che i loro componimenti post-rock rischiassero di diventare troppo angelici, troppo ariosi, troppo da “altro pianeta”. Con Kvekikur (canzone e album intero) i tre “ragazzini” di Agaetis Byrjun (avevano allora 21 anni) sembrano dire al mondo che sono diventati uomini, e non a caso anche la loro foto che circola in accompagnamento all’uscita del disco li ritrae in atteggiamento piuttosto cupo e dark, con la comparsa persino di qualche ruga e linea del tempo.
Apprezzabilissimo dunque il tentativo di mettere i piedi per terra, uscire dall’incantato isolamento dei fiordi nordici, e cercare sonorità più ruvide, più cattive, che era quello che ancora mancava alla loro sfolgorante carriera.
Non che si possa parlare di una vera e propria svolta, o di un cambio di direzione: se per caso lo pensi ascoltando Kveikur, il pezzo successivo, Rafstraumur, ti ricorda di chi stai parlando. E’ forse la canzone più Sigur Ros di tutte, in questo disco, con il consueto crescendo di batteria e suoni, con il consueto trionfo epico di voce e sottofondi, che hanno reso i Sigur Ros un caso planetario e tutt’ora non imitabile.
Si va verso la fine e si ha sempre più la sensazione che i Sigur Rós non abbiano voluto solo recuperare la pausa troppo intimista e sperimentale di Valtari, ma abbiano voluto riaffermare al mondo che sono loro i cavalieri dell’Icelandic epico, a prescindere dalle imitazioni e dai sotto-generi. Questo sembra dirci la bellissima Blápráöur e questo sembra confermare, per contrasto, il pezzo di chiusura, Var, l’unico episodio minimale e intimista, introdotto da un semplice piano.
Trascurata anche la parentesi pop e festosa di Meo Suo i Eyrum Vid Spilum Endalaust, questo Kveikur si annuncia come l’album della maturità, l’album che conferma i suoni di ( ) e Takk innovandoli ulteriormente e aggiugendoci la cupezza, la malinconia del tempo che passa, inesorabilmente, anche per i tre che sembravano eterni ragazzini. Solo la voce bianca di Jonsi resiste al tempo e continua ad essere quella dell’angelo bambino che tutti immaginiamo quando ascoltiamo le loro canzoni.
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autore: Francesco Postiglione
Tracklist:
1. Brennisteinn
2. Hrafntinna
3. Isjaki
4. Yfirbord
5. Stormur
6. Kveikur
7. Rafstraumur
8. Blápráöur
9. Var