Erano i primi di febbraio quando in piena notte, sul profilo Facebook di Kevin Shields, è apparso un post che recitava più o meno così : “l’album è pronto, faremo un annuncio appena sarà caricato su”.
Boomm! Sbamm! La rete che esplode, le bibbie laiche, che indirizzano fortune e cadute di tutto ciò che non è mainstream (Pitchfork e NME su tutte), annunciano che la pietra del sepolcro è appena rotolata via e che ora si attende solo la resurrezione, ma tanti atei e miscredenti – che negli ultimi vent’anni si sarebbero accontentati anche solo di un segno, di una nota, di un singolo o di un retro di copertina – hanno liquidato il tutto come l’ennesimo delirio del Brian Wilson contemporaneo.
E invece, nei momenti più inattesi, ciò che non voleva (o non doveva) accadere accade, scuotendo dal profondo quelle fondamenta sulle quali si è edificato un culto che va ben oltre l’ambito musicale, un culto che ha attraversato generazioni e scomodato mostri sacri, un culto che si è abbeverato nelle acque buie e profonde della mitologia, legando ad un unico filo rosso la follia e Salinger, il dissolvimento con Sofia Coppola, Bergson e i Velvet Underground.
Così, dinanzi al miracolo fattosi carne, davanti alla sacra reliquia chiamata semplicemente “MBV” il tempo è davvero sembrato un illusione, un frammento, una scheggia impazzita che in un attimo ha preso-accartocciato-buttato-nel-cesso due generazioni di storia, evoluzioni e rivoluzioni come solo il Kubrick allucinato di “2001 Odissea nello Spazio” aveva fatto quaranta anni prima.
L’annuncio poi, dopo qualche settimana dalla realase dell’album, di due date italiane è quello che fuori da ogni dubbio rientra (per certi ambienti) nella categoria “eventi da non perdere per nessuna ragione al mondo”, un annuncio capace di creare un overhype come poche altre volte era capitato.
Sembra strano quindi, dopo un’attesa durata mesi e mesi trovarsi al cospetto di un miracolo, “toccare” da vicino ciò che per anni ci è sembrata solo una leggenda metropolitana, almeno per la generazione successiva (la mia) a chi li ha vissuti in diretta.
Con un Estragon quasi pieno, e fortunatamente non asfissiante come si poteva ipotizzare per un concerto di fine maggio, con un pubblico che in prima battuta sembra la sintesi di almeno tre generazioni, e con un muro di amplificatori che troneggia sul palco, solleticando le fantasie più perverse di ognuno di noi, le prime note di “I Only Said” arrivano come una liberazione da tutto ciò che per troppo tempo non è stato musica, radendo letteralmente al suolo ogni congettura e qualsiasi incertezza.
Il muro sonico che arriva dalle chitarre di Kevin Shields e della bellissima Bilinda Butcher è assolutamente quello che tutti noi ci aspettavamo, un’onda d’urto spaventosa che reca in sé quella drammatica bellezza che ha reso questo suono e questo genere un tassello imprescindibile della storia della musica contemporanea.
Certo, e questo è bene sottolinearlo, ognuno vive questo evento in un modo strettamente personale, quasi ad annientare qualsiasi senso di oggettività, perché se da un lato vedo gente estasiata nel farsi schiacciare dal “rumore” deflagrante , dall’altro noto quasi un fastidio diffuso insieme a orecchie ben protette con tappi e cuffie. Se per molti le voci di Shields e Butcher non arrivano a sufficienza (non arrivano affatto per quanto mi riguarda), per altri le voci non devono assolutamente arrivare, lasciando che sia solo la musica e la potenza ipnotica di Shields e soci a riempire ogni centimetro di questo spazio.
La scaletta è un alternanza perfetta tra “Loveless” e “MBV”, con recuperi straordinari provenienti direttamente da “Isn’t Anithing”. La ninna nanna elettrificata di “When You Sleep” è pura estasi, figlia di una melodia che sotto le stratificazioni e i loop, si rivela nella sua natura perfettamente pop, mentre “Only Shallow” è un vortice di chitarre tremolanti e ipnotiche squarciate (e non il contrario) dalla sensuale ed etera voce di Bilinda Butcher (ah, se solo si sentisse come dovrebbe!), infine “To Here Knows When”è il suono degli angeli che hanno barattato le loro ali per una chitarra. Il resto è rumore, delle volte soffocante, ai limiti del fastidio, come potrebbe esserlo quello di una metropolitana, del resto l’acustica dell’Estragon non aiuta, altre volte è una nuvola di suoni fluttuanti, concentrici e narcolettici sostenuti dal basso vischioso di Debbie Googe. Rumore e sogno, la beatitudine di una melodia e le stratificazioni urticanti di riverberi e feedback, una perfetta dicotomia che trova nella devastante “You made me Realise” il momento più alto e significativo della serata; quindici-minuti-quindici di follia sonica, una discesa all’inferno senza eguali che ha spiazzato e spezzato ogni singolo cuore, un’esperienza sensoriale assoluta che non può essere solo musica, ma è corpo, anima, dolore, spaesamento, sofferenza e vita, tutti insieme però, senza saperli più riconoscere e distinguere.
Non c’è modo di spiegare questo concerto, non credo che si possa affermare che sia stato bello o tutt’altro che bello, ma l’unica cosa che resta è l’accettazione che sia stato un evento al quale bisognava andare, e non per dire “io c’ero”, ma per realizzare che non sempre è il tempo ad averla vinta.
autore: Alfonso Posillipo