Per parlare di “Tears Of Injustice” (Matador) a firma Mdou Moctar (Mahamadou ‘Mdou Moctar’ Souleymane: Acoustic Guitar, Electric Guitar, Vocals; Ahmoudou Madassane: Rhythm Guitar, Electric Guitar, Backing Vocals; Michael ‘Mikey’ Coltun: Bass Guitar, Electric Guitar, Percussion, MS20, Backing Vocals; Souleymane Ibrahim: Djembe, Percussion, Backing Vocals), non si può non fare riferimento al precedente “Funeral For Justice”, essendo di fatto la sua versione “acustica”.
Quando su queste pagine si recensì “Funeral For Justice” (lettura a cui si rimanda in considerazione anche della più ampia trattazione che fu per l’occasione fatta sulla carriera artistica di Mahamadou ‘Mdou Moctar’ Souleymane), si intitolò ‘Mdou Moctar: con “Funeral For Justice” verso un rock a tratti ancora più duro e di denuncia’.
Nel tessere le lodi del disco, in conclusione si “chiosò” affermando: “Ciò che continua a stupire e ad essere efficace è la commistione tra anima africana e tuareg e abrasioni e distorsioni occidentali per una formula che, sebbene paghi alla lunga una certa ripetitività, si mantiene sempre salda in un sano e unico equilibrio”.
Ebbene, ora, con “Tears Of Injustice”, Mdou Moctar dimostra la sua abilità nel saper trasformare una riuscita formula rock in una altrettanto riuscita formula acustica, restituendo un lavoro che sebbene sia anima gemella del suo “omologo”, se ne discosta radicalmente.
“Tears of Injustice is the acoustic version of Funeral For Justice. If Funeral for Justice was the sound of outrage, Tears of Injustice is the sound of grief. Mdou Moctar’s new album is Funeral for Justice completely re-recorded and rearranged for acoustic and traditional instruments. It is an evolution of the band’s critically-adored breakout – the meditative mirror-image to the blistering original” (si legge sul sito della Matador consultato il 6.3.25 https://shop.matadorrecords.com/release/473858-mdou-moctar-tears-of-injustice).
E così, se “il dirompente brano eponimo” – si scrisse – diventa ora sentita ballata che raddoppia (quasi) il minutaggio, la splendida “Imouhar” (“dopo un inizio “southern”, spinge sull’acceleratore ed esonda come un fiume in piena di corde distorte, per quello che è forse il più bel brano del disco” si ebbe modo di dire) mantiene intatta la sua bellezza, diventa ipnotica e dilatando e rallentando il battito del cuore si estende fino ai agli otto minuti (e oltre) scossi da tenui elettrificazioni.
Se poi “Takoba” e per sua natura quella che meno risente della revisione e che paradossalmente qui appare anche più sostenuta, “Sousoume Tamacheq” è altra prova di ottima “trasposizione”.
Da menzionare ancora “Imajighen” che nella veste acustica acquista maggiore “purezza” e “Oh France” brano che se aveva entusiasmato nella versione madre (‘“Oh France“, altro brano di spicco per musica e testo con la partecipazione di Hamadal Moumine Issoufou alla chitarra solista‘ – si scrisse), qui non delude malgrado perda di lunghezza e di impeto.
In chiusura una evocativa “Modern Slaves” congeda un bel momento d’ascolto.
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