“L’estasi dell’Essere, l’Essere/vita. Il jazz è, quindi, musica della venuta, musica che crea. A venire è la presenza spirituale della totalità dell’esistenza che il singolo si è concentrato ad inalare” (si legge nella prefazione “L’estetica blues e l’estetica nera” scritta da Amiri Baraka per l’’edizione italiana di “Il popolo del blues” dello stesso Amiri Baraka (LeRoi Jones) – consultata la stampa Shake Edizioni; il riferimento a Baraka e al suo “Blues People: Negro Music in White America” non è casuale come successivamente si leggerà).
Avevamo congedato il 2024, quale anno entusiasmante per il nostro orecchio e il nostro spirito nel segno del “legno” del sassofono, raggiungendo esaltanti vette, soprattutto nell’ancia di Colin Stetson e il suo infernale “The Love It Took To Leave You” (un disco incredibile), di Immanuel Wilkins con lo splendido ““Blues Blood” ” (Wilkins aveva anche preso parte al collettivo Out Of/Into, contribuendo alla piena riuscita di “Motion I” e prima ancora messo il suo “alto” al servizio di Kenny Barron per “Beyond This Place”), di Kamasi Washington con l’ottimo “Fearless Movement”, di Mats Gustafsson e del crudo e vivo “Testament” a firma Fire!
La nostra attenzione si era anche catalizzata sulla collaborazione tra i The Messthetics e James Brandon Lewis che davano alle stampe un LP al loro nome “The Messthetics and James Brandon Lewis” carico di una forza e bellezza che si immortalava in brani quali “Emergence” (‘è il primo piccolo gioiello, fusione tra (indie)rock e jazz … con i continui passaggi tra universi sonori tanto distanti me così vicini e con un attacco di sassofono che evoca per intensità e forza quel capolavoro che è “Encuentros” di Gato Barbieri’ – si era scritto) e “The Time Is the Place” (‘L’eccelsa “The Time Is the Place” si impone per il suo mood sospeso tra il poliziesco e il metropolitano e per le improvvise accelerazioni fatte di abrasioni e strali … sintetizzando una capacità di scrittura in cui anche gli elementi opposti riescono a convivere con equilibrio tanto formale quanto sostanziale in una caleidoscopica alternanza di jazz, rock, progressive, metal ….’).
In quell’occasione si era anche ricordato come Lewis nel 2023 avesse pubblicato ‘il bel “Eye Of I”, disco che si concludeva con la splendida “Fear Not” realizzata in collaborazione con i The Messthetics e come ‘per suo conto, oltre ai dischi a suo nome, vantava già co-pubblicazioni di rilievo, si pensi a “Radiant Imprints” e “Live in Willisau”, con l’iconico batterista Chad Taylor (Chicago Underground, Jaimie Branch, Jeff Parker, Marc Ribot, Sam Prekop, … per citarne solo alcuni)’.
Ebbene, questo inizio del 2025, sotto il “segno” del sassofono, è “influenzato” da un’altra produzione a nome James Brandon Lewis, intitolata “Apple Cores” (Anti-), che oltre a Lewis al sassofono vede Chad Taylor alla batteria/mbira (a nome Lewis/Taylor da segnalare “Radiant Imprints” e “Live in Willisau”) e Josh Werner al basso/chitarra (il trio è coautore di quanto suonato in “Apple Cores” ad eccezione della sola “Broken Shadows” di Ornette Coleman).
La registrazione (come si apprende dal sito dell’Anti- consultato l’8.2.25 https://www.anti.com/artists/james-brandon-lewis/) è stata “a collective compositional process that happened over the course of two intense, entirely improvised sessions”.
“Apple Cores”, poi, se nasce sotto il “segno” del sassofono di Lewis ha due influenti “ascendenti”: Amiri Baraka (imprescindibile per il valore sociale e musicale il suo già citato “Blues People” e Don Cherry (storici i suoi “Complete Communion” del 1966, “Symphony for Improvisers” del 1967 e i due “Mu” del 1969 e 1970); sempre dal citato sito dell’Anti-, consultato in data 8.2.25, si apprende: ‘The album takes its name and intention from the column that poet and jazz theorist Amiri Baraka wrote for DownBeat in the 1960s. “I was first exposed to Amiri Baraka at Howard University [also Baraka’s alma mater],” says Lewis. “Blues People [Baraka’s groundbreaking 1963 study of Black American music], was required reading. I’m always in constant dialogue with his work.” In addition to Baraka, the influence of another jazz giant looms mightily over Apple Cores: trumpeter and multi-instrumentalist, Don Cherry. In a testament to Cherry’s influence over the music that the trio is playing, Lewis designed each song title as a cryptogram of sorts, making subtle references to Cherry’s life and music’.
- “Apple Cores”
Entrando nel cuore di “Apple Cores”, il disco si apre con il groove di “Apple Cores #1”; su di una esatta sezione ritmica, il sassofono si libera in fraseggi frammentati e incisivi.
“Prince Eugene” sposta l’asse verso sonorità reggae scandite dalla Zimbabwean mbira facendosi apprezzare in particolar modo quando gli strumenti deragliano dalla tradizionale ritmica e si aprono a più suggestive visioni.
Una pulsazione e “Five Spots to Caravan” incalza con veemenza per un più che convincente momento d’ascolto, merito anche di una riuscitissima sezione ritmica e delle sue mutevoli frequenze basse che si spingono verso spazi sperimentali, spazi che diventano onirici in “Of Mind and Feeling”.
Se “Apple Cores #2”, ricuce il lembo con al sua parte prima, portando avanti il mood, complice un Werner “mobile” e “ispirato”, “Remember Brooklyn & Moki” è altra esecuzione che si impone: scura, notturna, avvolgente e urbana.
Una qui più asciutta “Broken Shadows” rispetto a quella di Ornette Coleman è sospesa tra atmosfere orientaleggianti e intricate tribali evocazioni.
“D.G. Got Pocket” intona frasi e costruisce strutture ritmiche da perfetto “singolo” (composizione destinata a diventare un classico da repertorio).
Mentre “Apple Cores #3” cala il giusto tris eponimo, “Don’t Forget Jane” incarna il momento più “free”, prima libero e poi metafisico.
La robotica “Exactly, Our Music”, in chiusura, è caratterizzata dalla chitarra e da una congeniale frase di sassofono.
Terminato l’ascolto si è viaggiati trasversalmente tra il jazz e un rock al suo servizio, con richiami anche un certo post-punk; se poi da una parte la componente demandata all’improvvisazione, mai prolissa ma anzi contenuta entro e non oltre i 4:56 dell’esecuzione più lunga, abbia talvolta trasmesso un senso di incompiutezza, dall’altro spunti di pregio e felici intuizioni hanno restituito nel complesso un disco piacevole e ben suonato.
Interessante sarebbe uno futuro sviluppo di tutto quanto di buono suonato in “Apple Cores”, strutturato in una “forma” più “ragionata” e “composta”.
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