Di recente, su queste pagine, più volte si è osservato come si stesse vivendo un periodo florido per il sassofono nelle sue molteplici declinazioni proposte da musicisti affermati o che si stanno affermando come suoi degni interpreti.
Si è scritto della bellissima collaborazione tra i The Messthetics e James Brandon Lewis e, sempre di Lewis, dell’altrettanto riuscito “Eye of I”; ancor prima si è parlato dell’ottimo “Coin Coin” di Matana Roberts e poi anche del riuscito “Fearless Movement” di Kamasi Washington, dell’incredibile “The Love It Took To Leave You” di Colin Stetson e del non convincente “Odyssey” di Nubya Garcia.
Provare a tracciare una storia della famiglia del sassoffono è impresa saggistica ed enciclopedica e non basterebbe una vita di ascolti per carpire tutte le sfumature di uno strumento che mi ha personalmente folgorato più e più volte; ricordo da ragazzino le ore passate a fare il raffronto tra i due sassofoni in “Kind Of Blue” di Miles Davis, l’alto di Cannonball Adderley e il tenore di John Coltrane, e poi proprio il John Coltrane di “A Love Supreme” (ma in sostanza anche tutta le restante discografia), e ancora “Jam Session” di Charlie Parker, “Saxophone Colossus” di Sonny Rollins, “Speak No Evil” di Wayne Shorter, “The Blues and the Abstract Truth” di Oliver Nelson, “Chapter One: Latin America” di Gato Barbieri, “Lee Konitz with Warne Marsh” di Lee Konitz e Warne Marsh, “Paris Blues” di Steve Lacy e Gil Evans, “Spiritual Unity” di Albert Ayler”… e da lì Coleman Hawkins, Lester Young, Ornette Colman, Eric Dolphy, Ben Webster, Roland Kirk, Sam Rivers, Pharoah Sanders, Joe Henderson, Dexter Gordon, George Braith, Sonny Red, Paul Desmond, Tina Brooks, Yusef Lateef, Joe McPhee, Jackie McLean, Stan Getz, Antony Braxton, Evan Parker, Peter Brötzmann, Chris Potter, i Rova Saxophone Quartet, Henry Threadgill, Steve Coleman, Tim Berne, Joshua Redman, Jan Garbarek, John Surman, Zoh Amba, James Carter, Walter Smith III… e, senza soluzione di continuità, fino (appunto) a Immanuel Wilkins (sassofonista che abbiamo già “incontrato” in “Beyond This Place” di Kenny Barron).
Ora è quindi la volta di “Blues Blood” (Blue Note Records) di Immanuel Wilkins, lavoro co-prodotto da Meshell Ndegeocello.
Va premesso che Wilkins, con il suo disco d’esordio “Omega” (del 2020), ha stupito per la capacità di proporsi interprete contemporaneo di una scuola jazz che manteneva salde le radici nella tradizione non solo musicale ma anche contenutistica, di impegno sociale e politico e di forte spiritualità (“I have to begin by thanking The Creator, my Lord and Savior Jesus Christ – the sole foundation, for giving me these gift…”, si legge nelle note di copertina di “Omega”); un disco che partendo dall’ottima “Warrior”, passando per l’esatta “Part 3 Euology” arrivava sino alla bella “Omega” con mirabile continuità stilistica, candidandosi a “classico” di genere grazie anche ai musicisti coinvolti che, oltre a Wilkins al sax contralto, vedevano Daryl Johns al contrabbasso, Kweku Sumbry alla batteria e Micah Thomas al pianoforte.
Nel 2022 era la volta di “The 7th Hand” che, ancor prima dell’ascolto, si faceva amare per la copertina; Wilkins, ripartendo da “Omega”, confermando il quartetto base (e arricchendolo con partecipazioni), inanellava altri brani di pregio (“Emanation”, la notturna “Shadow”…), virava verso soluzioni più free come “Lift” e manteneva fermo l’impegno concettuale della sua arte e i richiami spirituali.
- “Blues Blood”
Ebbene, pur cambiando “registro”, Immanuel Wilkins con “Blues Blood” si conferma straordinario musicista.
Con Wilkins al sassofono contralto, al sintetizzatore e alla voce, in “Blues Blood” suonano: “Micah Thomas on piano, Rick Rosato on bass, Kweku Sumbry on drums, and vocalists Ganavya, June McDoom and Yaw Agyeman—as well as special guest appearances by vocalist Cécile McLorin Salvant, guitarist Marvin Sewell, and drummer Chris Dave” (come da sito blue note: https://www.bluenote.com/spotlight/immanuel-wilkins-blues-blood/ consultato il 13.10.24).
Stravolgendo l’ordine dei brani, partiamo dalla fine e dall’eponimo “Blues Blood” (composizione che chiude il disco), tanto è folle flusso di coscienza in cui jazz, sperimentazione, fusion… si completano con potenza tra virtuosismi, destrutturazioni, distorsioni, abrasioni, pause, interruzioni, riprese, grida, momenti di riflessione, lamenti blues… per una composizione ed esecuzione che condensa un intero disco e ne è tanto giusta conclusione artistica quanto necessaria prefazione narrativa.
Detto ciò, rimettendo la puntina dall’inizio, con “Blues Blood” (disco) Wilkins cambia registro verso una più pacata introspezione, introduce la voce e il canto come da subito testimonia l’elegiaca “Matte Glaze” che si distingue per equilibrio e fascino e le cui voci sono affidate a June McDoom, Ganavya e Yaw Agyeman.
“Motion” è caratterizzata da una pianoforte “incantato” e da un canto (di June McDoom) che sono preludio ad una apertura di stampo “classico” in cui la voce si fonde prima che il tutto torni su più sognanti e morbide ambientazioni “d’effetto”.
“Everything” mostra dapprima un lato “sperimentale”, nella sovrapposizione di voci narranti, di un piano ossessivo, di un sassofono libero e di un canto soffuso, per poi precipitare in un gorgo di spirituale invocazione; qui la “voice” è affidata a Esi Sumbry e, con lei, quali “vocals”: June McDoom, Ganavya e Yaw Agyeman.
“Dark Eyes Smile” (con la partecipazione alla voce di Cécile McLorin Salvant) è il brano più “ordinario” e accessibile, forte nella sua eleganza.
Con “Apparition” torna la sperimentazione che si fa astrazione in un’ossimora eterea concretezza che chiude il primo dei due LP con splendido piglio.
Aprono il secondo LP gli interessanti esercizi di “Assembly” (uno dei vari brevi “interlude”), in cui Wilkins lascia il sax per il synthesizer.
“Afterlife Residence Time” (uscita anche come singolo) offre un momento d’ascolto di pregio assoluto, nella sua miscellanea di umori e stili, una sorta di mini suite che si sviluppa e si evolve e con un sassofono lancinante e urlante; la prima volta che l’ho sentita, nell’attacco della voce, mi è tornato in mento quel capolavoro che è “Beautiful as the Moon – Terrible as an Army with Banners”, composizione del 1975 degli Henry Cow con gli Slapp Happy (sebbene i due brani siano sostanzialmente differenti).
https://www.immanuelwilkins.com/https://www.facebook.com/profile.php?id=100057783111859