La mia ultima volta con i Flaming Lips risaliva a un paio di anni fa, Primavera Sound Festival, Wayne Coyne (nella foto) che “passeggia” sulle teste del pubblico nella sua sfera trasparente, Wayne Coyne che indossa delle mani giganti, decine di palloni colorati, coriandoli a profusione, figuranti sul palco vestiti da personaggi del mago di Oz, atmosfera festosa ed eccessiva. Nel frattempo i nostri hanno pubblicato un album cupo e per certi versi inquietante intitolato “The Terror“, e Coyne ha annunciato in più interviste “non farò più la cosa della sfera”. Nessuno, in ogni caso, si aspetta che una band come i Flaming Lips rimanga sempre uguale a sé stessa.
E infatti i due concerti londinesi sono stati di tutt’altro tono.
Coyne e soci sono a Londra per due spettacoli, sold out da tempo, in programma per il 20 e il 21 Maggio. Con un comunicato striminzito, il sito della Roundhouse annuncia la cancellazione del primo concerto (rimandato di una settimana) causa non meglio specificata “malattia”. Il giorno prima un tornado aveva devastato Oklahoma City (la loro città), e quindi sul web non sono mancati i commenti che credevano che i due eventi fossero connessi. Il secondo concerto resta “in bilico” per tutta la mattinata, fino a quando finalmente arriva l’annuncio che si svolgerà regolarmente.
La sala è gremita, il palco è pronto (una scenografia tra il surreale e lo “spaziale”: una sorta di “pulpito” argentato per il cantante, cavi luminosi che si arrampicano su una serie di sculture metalliche ammucchiate l’una sull’altra), quando Coyne sale sul palco per provare il microfono. Invece del consueto “one-two, check”, inizia un lungo discorso, col quale ci tiene a spiegare che il concerto del giorno prima era stato annullato perché davvero non ce la faceva a cantare (e considerando che è praticamente senza voce c’è da crederci), e che per fortuna nessuno dei loro conoscenti era rimasto colpito dalla devastazione del tornado (“Se chiunque nella crew fosse stato in pensiero per un familiare o un amico disperso, non avremmo esitato un attimo a tornare a casa, ci sono cose più importanti di un concerto”). Si scusa per le sue pessime condizioni di salute, promette che quello di stasera sarà comunque “uno spettacolo memorabile”, e torna dietro le quinte.
Il primo dei due concerti risente ovviamente delle condizioni precarie del frontman, ma davvero, come promesso, si tratta di uno spettacolo memorabile. E il live della settimana successiva è ancora meglio. Le luci e i video sono ipnotici (fin troppo, per qualcuno: nel secondo concerto una ragazza collassa e il concerto viene sospeso per una decina di minuti, con Coyne che chiede a tutti di restare un po’ in silenzio per farla riprendere con calma e poi ammette “yes, our lights are fuckin’ intense”), in scaletta c’è molto “The Terror”: “Look…The Sun Is Rising” e la title track del disco suonate in apertura suonano come una “dichiarazione d’intenti”. Il nuovo live dei Flaming Lips è acido e “fottutamente intenso” come le loro luci.
In evidenza c’è il loro lato più psichedelico, ma non c’è spazio per divagazioni auto referenziali o masturbazioni mentali: il concerto è concepito come un lungo trip, ma è un trip collettivo. E, seppur ricoperta da una montagna di effetti, distorsioni e sintetizzatori, l’umanità, l’umiltà e la fragilità di questi splendidi cinquantenni è sempre evidente. Coyne cerca costantemente il contatto col pubblico, e quando lo ringrazia per l’attenzione (“anche per le nostre canzoni più strambe”) e il supporto lo fa con una sincerità disarmante, che ti scalda il cuore.
Una splendida cover di “Heroes” di Bowie (molto meglio nel secondo concerto, ovviamente, con la voce di Coyne che riesce a farsi spazio con meno fatica nel muro di suono della band) è dedicata a “tutti quelli che passano la vita a giudicare la vita degli altri”; “Race For The Prize” – che nei tour precedenti era l’apoteosi della festosità – è ri-arrangiata in versione minimalista, per tornare nella versione “originale” solo nell’ultima strofa; l’incalzante “Silver Trembling Hands” è tra i momenti più esaltanti di entrambi i concerti, mentre “Unconsciously Screamin’” e una spettacolare “Moth in the Incubator” (entrambe in scaletta solo nel secondo concerto) fanno felici i fan della prima ora. L’empatia col pubblico è semplicemente perfetta durante “Do you realize??“: nel primo concerto la voce di Coyne viene clamorosamente meno sul più bello, ma il pubblico interviene cantando a squarciagola per riempire il vuoto, lasciando di stucco la band (introducendo la stessa canzone, sei giorni dopo, il cantante ci ha tenuto a ricordare questo momento ai presenti).
Due concerti memorabili, entrambi conclusi dalla splendida “Always There, In Our Hearts” (che è anche la traccia con cui si chiude “The Terror”). Una canzone triste (“always there, in our hearts, there are sorrows and sadness…”), in cui però non manca il desiderio di mantenere sempre viva la speranza (“Always there, in our hearts, Something good that we can’t control”…).
“La musica è qualcosa di fondamentale e importantissimo, e non vi rendente conto del privilegio di poter essere qui con voi a proporvi la nostra musica”, ci tiene a sottolineare Coyne dal suo pulpito. Il privilegio è tutto nostro, caro Wayne.
autore: Daniele Lama