C’è del bianco e del vuoto. Un lungo notturno stordito, le feste e gli adagi del dopo, le chiacchiere in moto perpetuo e poi “bla, bla, bla, bla”. C’è chi lo riempie di oggetti e di corpo, rigonfia e allestisce, magia, rimette e straparla, come obbligato a far troppo rumore “bla,bla, bla, bla”. C’è chi sente e capisce, che dietro i bagordi e i milioni di voci la fretta, dietro il rumore infinito, c’è solo l’assenza, col bianco e il vuoto. E l’assenza è la sola a smontarlo, il vuoto, a trovarci un suo spazio. E l’assenza lo spezza e lo versa, come un vino in eccesso, col gusto distorto e aceto.
E’ lo stesso processo dei gesti e dei volti, dei desideri traviati, in un quadro deforme, coi mostroidi che impazzano nudi o troppo vestiti, e l’eccesso strapazza ovunque, non serve, e ripete infinite volte una vecchia canzone, mentre scorrono visioni di una fontana di suore, di tetti festini, di nudi da guerra e di strip.
La grande bellezza parla di noi e lascia qualcosa anche in sala. Sulla scena di una festa, in terza fila due donne ridono e sparano urletti. Mi volto e le guardo. Sembrano spuntate dal film, come pezzi dei trenini del party, vagoni smarriti di convogli “così belli che che non vanno da nessuna parte”, mentre il film schizza via come un palloncino sfuggito alle dita del buonsenso, sbattuto dall’elio, e lascia una scia di domande. Semplici e non. E nessuno risponde, perchè nessuno sa niente di quello che dice e che fa. Se usi la“vibrazione” e non sai che vuol dire, è tutto inutile. Così se piove raccogli l’acqua e resti muto. Chiami le cose col loro nome, una per volta, e soffia via la stupida fuffa degli artisti.
Jep Gambardella parla e orienta. E’ lui il giornalista che fuma sul bianco, medita a voce e coscienza. Osserva il mare sul soffitto e una giraffa che scompare, segue la luce e le feste. Poi si eclissa. Sparire è un trucco, le immagini sfumano e resta la voce. Servillo guida e Sorrentino disegna le strade. Il caos imperversa e io mi fido dei i bambini che disegnano promesse geometriche nei giardini, degli occhi delle statue antiche e delle principesse al tavolo da gioco. Mi fido dei funerali di scena e delle lacrime. Dei chiaroscuri giorno e notte. Della povertà vissuta, e delle scale strisciate di una santa che non ha. L’infinita mostra procede inutile sul nulla. Restano in piedi i ricordi del primo amore, i sogni caduti e la scrittura incombente dietro i dettagli. Non è detto che si debba scopare. E’ bello non fare l’amore, in questo scompiglio di corpi.
E’ la voce a reggere l’immaginario e gli spunti che riempiono il film. Servillo pensa e passeggia colorato tra la storia immobile che assiste allo sfacelo. Qualcosa stona , dice troppo e muove i mondi senza l’orbita, ma resta il senso. Resta la voce.
Contemporaneamente al film di Sorrentino, Toni Servillo è in tournee con “Le voci di dentro”, uno dei lavori più immaginifici del teatro di Eduardo. Anche compaiono i fantasmi, popolano i sogni e costruiscono mondi senza fondamento, scatenando col sogno di un delitto mai avvenuto una guerra di accuse, risa e riflessioni amare. Servillo segue il nulla anche in quel caso, lo circoscrive e lo chiarisce meditando sui morti e sui vivi. Parlare è inutile, sostiene Zio Nicola, anziano personaggio che si esprime a suon di fuochi artificiali. Perchè se il mondo è sordo, lui può essere muto. E di silenzio vive il teatro di Servillo, esattamente come il tempo della voce segna il film di Sorrentino. Armi di assenza e riflessione, in cerca di senso, in guerra aperta con l’osceno vuoto del rumore.
C’è una scena del Film che mostra una installazione di foto, scattate giorno per giorno, fin dall’infanzia, lungo tutta la vita di un uomo. Le immagini luminescenti attraversano il viso di Jep Gambardella e dallo schermo arrivano dritte sui volti della gente in sala. É il momento in cui la voce tace, il film diventa un’alba, e finalmente muore di bellezza.
autore: Alfonso T. Guerritore