Andrew Bird (ed è il caso di dire il suo violino) è musicista tanto prolifico quanto qualitativamente apprezzabile.
Malgrado un’ampia discografia è, infatti, riuscito a suo nome (sin dall’esordio con “Music of Hair” del 1996 d’impronta marcatamente folk in cui spicca la particolare “Pathetique” e la lunga “Minor Beatrice”) a mantenere sempre un buon livello di scrittura (al quale si può solo imputare, talvolta, ripetitività) e che ha trovato il suo apice in “Andrew Bird & The Mysterious Production Of Eggs” (del 2005), esatto esempio di cantautorato/alt pop, elegante e vario, come testimoniato dalle ottime “A Nervous Tic Motion Of The Head To The Left” e “The Naming of Things”, ed ancora da “Fake Palindromes”, “Skin Is, My”, “Tables And Chairs”, dalla “sghemba” “Banking On A Myth”, dalla retrò e psichedelica “Opposite Day”, dalle delicate “Masterfade”, “Soavy” …
Analizzare l’intera discografia di Bird, per giungere a “Sunday Morning Put-On” (Loma Vista), sarebbe impresa “lunga” e a tratti “superflua”, considerati anche i live, gli EP e le collaborazioni; alcune precisazioni vanno comunque fatte, anche perché la scrittura di Andrew Bird, da “Music of Hair” ad oggi, ha subito nel tempo “formali” importanti cambiamenti.
Va innanzitutto detto che di rilievo sono i tre dischi pubblicati tra il 1998 e il 2001 come Andrew Bird’s Bowl Of Fire (“Thrills” del 1998, in cui è presente in diversa veste “Pathetique”, “Oh! The Grandeur” del 1999 e “The Swimming Hour” del 2001), esplosiva miscellanea di generi e di richiami “etnici” soventemente ancorati al passato, in un alternanza di cabaret e citazioni.
Il solo “Thrills” dalla musica nera (“A Woman’s Life and Love”), passando per umori caraibici (“Depression-Pasillo”), per ritmi latino-americani (“Eugene”), per derivazioni jazz di gusto charleston (“Cock o’ the Walk”), giunge fino alle steppe della Russia “50 Pieces”; da menzionare ancora da “Oh! The Grandeur”: “Beware”, “The Idiot’s Genius” … e dal più rock “The Swimming Hour”: “Two Way Action”, “Core And Rind”, “Why?”, “How Indiscreet” …
Ripartendo dall’Andrew Bird “solista” … di pregio è poi “Noble Beast” del 2009 con le sue impeccabili “Masterswarm”, “Fitz And The Dizzyspells”, “Section 8 City” (presente in versione “liquida”); spicca poi “Not a Robot, But A Ghost” con Martin Dosh, per il suo “geniale” arrangiamento robotico-latino-folk.
“Break It Yourself” del 2012 marca territori più alt pop e si distingue per brani di qualità quali “Desperation Breeds…”, “Give It Away”, “Eyeoneye”, “Fatal Shore” …; in “Lusitania” trova, poi, voce anche St. Vincent. Alcune edizioni sono accompagnate dal DVD “Here’s What Happened” contenente riprese live/studio che ben rendono l’idea della resa live di Bird e del suo gruppo.
Nel 2019 un ulteriore tassello viene posto con “My Finest Work Yet”; Bird è ormai distante dalle “eclettiche” e rocambolesche visioni delle origini a nome Bowl Of Fire e propone un ottimo ed elegante lavoro, come suggellato da “Bloodless” e con essa da “Sisyphus”, “Manifest”, “Don The Struggle”, “Bellevue Bridge Club” …
Di estremo gusto è anche “Inside Problems” del 2022 (tra i suoi lavori che personalmente preferisco), che gira nel solco tracciato da “My Finest Work Yet”, aggiungendo “concretezza e spessore” con la splendida e affascinante “Underlands” (brano più che riuscito) e con essa “Lone Didion”, “Inside Problems”, la bellissima “The Night Before Your Birthday” (con venature alla Lou Reed e alla Bob Dylan), “Make a Picture”, l’ottima “Atomized”, “Eight” (con il suo assolo di violino), “Never Fall Apart” (con i suoi amabili richiami al già sentito).
Ora, con “Sunday Morning Put-On”, a nome Andrew Bird Trio (a comporre il trio, con Bird alla voce e violino, Alan Hampton al basso e Ted Porter alla batteria e al vibrafono; con loro anche Jeff Parker alla chitarra e Larry Goldings al pianoforte), la “direzione artistica” si volge verso un’interpretazione di classici del jazz che vengono resi in modo caldo, notturno e personale e a cui il violino di Bird conferisce una particolare tonalità di chiaroscuro e un gusto agrodolce che piace all’orecchio… anche senza dover scomodare i vari Stéphane Grappelli, Jean-Luc Ponty, Leroy Jenkins …
Apre il disco “I Didn’t Know What Time It Was” che colora di blue(s) e riempie di “fumo” la camera d’ascolto, per una versione al maschile che si contrappone alle celebri voci femminili di Billie Holiday, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald.
Analoga sorte per “Caravan”, in cui sono stemperate le atmosfere mediorientali che, sebbene riecheggino tra le corde …, sembrano filtrare le sabbie attraverso interstizi urbani.
Se “I Fall in Love Too Easily” e “My Ideal” richiamano alla memoria Chet Baker, con “You’d Be So Nice to Come Home To” Bird omaggia Cole Porter.
Il violino conferisce a “Django” un’area europea, da corte viennese, che lo differenzia dalla ben nota esecuzione dei Modern Jazz Quartet.
Girato il lato del vinile, si continua con “I Cover The Waterfront” (anche essa distante dalle versioni di Bilie Holliday e Frank Sinatra) dove la chitarra di Jeff Parker si alterna nell’assolo.
Bella è “Softly, as in a Morning Sunrise”, nell’arrangiamento di violino, che inizia con la voce “in sordina” (torna Jeff Parker alla chitarra) … e che sebbene “bianca” si colloca solo pochi gradini al di sotto di quella di Abbey Lincoln.
Dopo la breve “I’ve Grown Accustomed To Her Face”, incentrata sul solo cantato, la lunga e strumentale (Bird in passato si è spesso dedicato a lavori prettamente strumentali, si pensi ad esempio a “Useless Creatures” o a “Outside Problems”) “Ballon de peut‐être” (a firma di Andrew Bird), accompagna l’ascoltatore verso paesaggi sonori meno jazz e chiude un disco che si lascia ascoltare e che trova la sua ragione nella “pacata moderazione” che lo contraddistingue.
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