Giunto al quarto album solista, Andrea Van Cleef opera un deciso cambio di direzione nella sua produzione musicale, andando ad attingere nel mare magnum del genere “Americana” l’ispirazione per questa nuova raccolta di canzoni, mettendo definitivamente (?) da parte il granitico stoner rock degli album precedenti. Sin dai primi ascolti “Horse Latitudes” mette in mostra le positive influenze che arrivano dalla sua passione per le colonne sonore dei film western, il country intriso di noir-blues dell’ultima fase della carriera del grande Johnny Cash, quello riportato alla gloria da Rick Rubin con gli album della serie American Recordings.
L’album è fortemente influenzato dai suoni dell’America rurale e non a caso è nato durante un tour nel Texas, ed in parte registrato nello studio Smilin’ Castle Productions di Rick Del Castillo, collaboratore del regista hollywoodiano Robert Rodriguez per le colonne sonore, per poi essere completato con i fidi The Black Jack Conspiracy nel familiare Buca Recording Studio di Montichiari.
Secondo la leggenda, il termine latitudine del cavallo deriva dalle navi in navigazione verso il Nuovo Mondo. Venti calmi, cieli soleggiati e scarse precipitazioni facevano sì che le navi rimanessero bloccate per giorni o addirittura settimane. Immaginandolo all’interno di quella situazione si può arrivare a comprendere come nasce l’ispirazione per alcuni brani di Horse Latitude che sono pieni di immagini bibliche di cui è intriso il blues dolente di “Arrows” in cui la voce profonda di Andrea Van Cleef porta ad accostarlo al Mark Lanegan di “The Winding Sheet”, mentre l’immaginario western sembra riveste il brano d’apertura “A Horse Called Cain” in cui l’autore canta “Cavalcherò attraverso il deserto/ su un cavallo di nome Caino”.
Doppo questa doppia apertura abbastanza cupa dell’album arrivano due brani marcatamente country come “The Longest Song” e “Love Is Lonely” in cui nei duetti vocali con Ottavia Brown sembra di risentire quelli indimenticabili messi in scena da Johnny Cash con l’amata June Carter.
Il disco prosegue ancora sulla linea della spensieratezza con il doo-wop di cui è farcito il brano “Thing” e con la personalissima e riuscita cover di “Ohh La La” dei Faces. Le atmosfere roots tornano ancora in primo piano con “Fire In My Bones” e “Slaughter Creek” in cui banjo e il violino richiamano certi paesaggi sonori tipicamente morriconiani. Le atmosfere tornano ad incupirsi nella parte finale dell’album. “Come Home” è un pezzo in cui il testo è pieno di immagini cinematografiche: “Questi bar e club sono una condanna a vita/ lenzuola macchiate in letti rotti/ sconosciuti che parlano del tempo/ questa città è pazza, a nessuno importa”.
Come già detto la presenza dell’arte ego vocale di Van Cleef, Ottavia Brown arricchisce di varie sfumature alcun brani dl disco e se nei brani più country riecheggia la coppia Cash/Carter, nella sofferta “The Disappearing Child” sembrano palesarsi facili accostamenti con i duetti tra Mark Lanegan e Isobel Campbell oppure quello tra Nick Cave e Kyle Minogue.
La chiusura di questo pregevole disco è affidata ad un brano atipico rispetto a quanto ascoltato nei minuti precedenti. “The Real Stranger” è un brano lungo caratterizzato dal suono di un basso profondo e quasi jazzato sui cui si innesta dal prezioso feauturing al sax di Dana Colley dei Morphine in cui Andrea Van Cleef canta con un timbro vocale che è un sincero omaggio al compianto Mark Sandman.
Horse Latitudes è disponibile in versione vinile, cd e digitale pubblicati dalla Rivertale Productions.
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foto di Michele Aldeghi