Diciamolo subito: un mega concerto di mostri sacri del rock è diventato ormai oggi un argomento divisivo. L’età avanzata delle band (con contestuale immancabile minore resa dal vivo rispetto agli anni d’oro), il prezzo sempre più alto e ormai intollerabile (160 euro era per gli AC/DC il costo del biglietto zona rossa, quello più elevato), la struttura stile greatest hits con poche variazioni e sorprese di un concerto di questo tipo hanno nel tempo portato molti appassionati a interrogarsi, e qualcuno anche a criticare, eventi fenomenali come quello che si è visto a Reggio Emilia alla RCF Arena il 25 maggio scorso.
La data, che ha venduto ben 100.000 biglietti (segno che le critiche e le divisioni e anche il prezzo alto non arresta il flusso dei fan) era l’unica tappa italiana per ora del tour degli AC/DC redivivi, che dopo la sospensione del tour nel 2016 hanno subito la morte del membro storico Malcom Young, e poi sono rinati con l’album Power Up, del 2020, uno dei migliori dischi dagli anni 2000 ad oggi (se non il migliore in questo lasso di tempo non da poco).
E, come per Rolling Stones (due tappe in Italia in pochi anni) o per Bruce Springsteen (atteso per il 2 giugno a San Siro, concerto poi rimandato) o per altri happening di “classiconi” della storia del rock, anche questo appuntamento ha fatto molto discutere.
Non si può ignorare il tema del prezzo del biglietto, aggravato dal fatto che proprio questi mostri sacri non avrebbero più tanto bisogno ormai di guadagnare, non si può ignorare che un tour del gruppo australiano a fine carriera inevitabilmente si trasformerà in un Greatest Hits Live, non si può nemmeno ignorare che a 69 anni suonati Angus Young ha i capelli bianchi e anche se continua a dare il massimo sul palco il suo massimo non è quello degli anni ’80.
Ma non si può nemmeno ignorare che il pubblico è uscito ultra soddisfatto e divertito, e fra questo pubblico c’è chi li ha visti tante volte. E non si può ignorare, soprattutto, che questa tappa è stata l’occasione, per qualcuno, per vederli, nonostante l’avanzata carriera, per la prima volta. E se li vedi per la prima volta e ne esci abbagliato, allora l’obiettivo è raggiunto.
Acquisisce ulteriore valore aggiunto il fatto che per chi li ha visti già in un passato recente (a Imola, nel 2016) come noi di Freak Out questo concerto è sembrato addirittura migliore. Se così è, allora le polemiche non possono avere vittoria, e comunque così è certamente per i 100.000 spettatori che erano lì, perché è difficile trovare fra loro qualcuno che non si è divertito.
“Se vuoi il sangue lo avrai”: con questo preciso programma di intenti inizia il concerto, puntualissimo, alle 20.45 alla RCF Arena. Una canzone, un programma, appunto: e si capisce subito che il sangue, e se non quello almeno il sudore, sarà soprattutto dei due veterani, Brian Johnson e Angus Young, che sin dal primo pezzo fanno capire che non hanno intenzione di risparmiarsi. Back in Black, attaccata subito dopo, è forse una hit che ci si poteva giocare a pubblico più caldo. Giustamente invece i pezzi seguenti sono quelli che devono servire ad aprire la strada e la temperatura: Demon Fire, dall’ultimo disco, e Shot Down in Flames servono a scaldare, e così arriva Thunderstruck, anche questa forse giocata troppo presto, che dovrebbe portare il pubblico in delirio già alla quinta canzone. Da Thunderstruck in poi la sequenza è da distruzione: Have a Drink on Me, Hells Bells e Shoot to Thrill, intervallate da Stiff Upper Lip e Shot in the Dark (altro pezzo di Power Up), sono l’ossatura di questa scaletta, anche perché assieme a Back in Black provengono dal loro album indiscutibilmente più famoso, venduto e forse il più bello.
La seconda parte del concerto sarà allora dedicata a pezzi dell’epoca Bon Scott, gli immancabili grandi classici. Così è, ma vi sono anche piacevoli sorprese: Young e compagni ripescano Black Ice del 2008 dal quale eseguono Rock and Roll Train e Wheels, ma anche Sin City da Powerage, per esempio.
Dirty Deeds Done Dirty Cheap, High Voltage, Whole Lotta Rosie e naturalmente Let There Be Rock, Highway to Hell e TNT vengono eseguiti quasi di seguito, e se gli spettatori non avessero anche loro prevalentemente l’età non imberbe che per forza di cose deve avere un fan degli ACDC probabilmente al termine del concerto dopo questi pezzi ci sarebbe da raccogliere resti umani devastati dal pogare. Ma invece il pubblico salta, canta, si diverte, ma non si registrano eccessi. Un concerto degli AC/DC oggi è anche questo.
In mezzo a questa sequenza dei grandi e storici pezzi dell’era Bon Scott, c’è solo spazio per un ultimo grande classico di Back in Black ovvero You Shook Me All Night Long.
Dunque tutta l’ultima parte del concerto, con le ultime dieci canzoni, se si eccettua Wheels è appunto un greatest hits dell’epoca d’oro degli AC/DC. Questo è quello che il pubblico vuole (If You Want blood you got it, è il caso di dire) e questo è quello che Brian e Angus sono pronti a dare, coadiuvati dal bassista Chris Chaney, dalla batteria di Matt Laug (che hanno sostituito Cliff Williams e Phil Rudd che invece compaiono in Power Up) e dal secondo chitarrista Stevie Young, nipote di Malcom.
Al termine di questa festa rock, se volete all’insegna della nostalgia, ci sono i due rituali tipici della band australiana: il lunghissimo solo di Angus, con il solito gioco di rimandi col pubblico, che dura qui ben 17 minuti e vede Angus (apparentemente più vecchio nel fisico di quanto in realtà non sia d’età, ma assolutamente in forma smagliante in termini di tenuta sul palco e Duckwalk) camminare da una parte all’altra del palco gigantesco, salire scale per arrivare a un piano sopraelevato, collocarsi al centro della passerella, salire con un cerchio montacarichi in alto sul pubblico e gettarsi a terra ripetutamente, e da terra sollevarsi, il tutto senza smettere di suonare. E senza smettere di suonare “il suo” sound, quello inconfondibile che reca il suo marchio indelebile di fabbrica.
L’altro rituale è la chiusura con For Those About to Rock We Salute You, con tanto di immancabili cannoni (più grandi dell’ultima volta a Imola) che Brian eccita insieme col pubblico al grido irresistibile di FIIIIIREEEEE! come ha sempre fatto da quando esiste questa canzone.
Il concerto si chiude dunque dopo ben 22 canzoni, due ore e un quarto, tempi che nemmeno le band giovani di oggi mantengono, e considerate anche che non c’è stata una pausa, infatti le 22 canzoni scorrono senza bis.
Tutto questo cancella ogni polemica, ogni tentativo di discussione: una band che è sopravvissuta alla morte di Malcom, alla sordità temporanea di Brian, al continuo ricambio di membri, e che si chiude in epoca Covid in studio e ne tira fuori un disco potentissimo, e decide ben quattro anni dopo di portarlo in tour, è una band leggenda che non potrà mai essere messa in discussione nemmeno se Angus continuerà a fare il Duckwalk, e la band continuerà a fare tour, e a novant’anni. E c’è da pensare che così potrebbe essere considerato le energie mostrate di Brian e Angus.
Let there be rock allora!
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foto di Elisa Schiumarini