Pur riconoscendone l’indubbia bravura musicale e capacità di scrivere non solo brani ma interi album di pregio, St. Vincent (Anne Erin Clark) non mi ha mai personalmente preso fino in fondo per la sua programmatica attitudine alla composizione che, per utilizzare un termine teatrale, non ha mai abbattuto totalmente la “quarta parete”: ma questa è una visione strettamente personale che può essere “ribaltata” e contraddetta tranquillamente se si pone lo sguardo e l’ascolto da diversa prospettiva. Autrice, sin dall’esordio “Marry Me” del 2007, di dischi in cui scrittura, esecuzione e produzione viaggiavano di pari passo ad alti livelli, anche brani celebri e compositi come (dal citato “Marry Me”) “Now, Now”, “Marry Me” o la bella “Your Lips Are Red” (che ho sempre apprezzato moltissimo) davano l’impressione di esatti costrutti pensati e progettati per assolvere alla loro funzione di stupire e piacere. In sostanza è come se in St. Vincent mancasse sia un’intima spinta viscerale che una mentale alienazione e/o paranoida, elementi questi non essenziali ma spesso forieri di “caratteri” distintivi. Esempio di ciò può essere l’ottima “Paris Is Burning” (sempre da “Marry Me”) brano in cui una una possibile “dannazione” emotiva (“While i slip poison in your ear …”) è comunque elevata e bilanciata. D’altro canto la riuscitissima “All My Stars Aligned” (ancora da “Marry Me”) certificava il temperamento da raffinato alt e art pop sempre saggiamente dentro le righe.
Tale formula, per uno strano e apparente paradosso già collaudata sin dalla nascita, si replicava nei singoli (da segnalare la cover “These Days” di Jackson Browne, così come fu anche per Nico, versione che si fa però preferire a quella di St. Vincent, e “Bicycle”) e negli LP successivi, quali il più che buono “Actor” del 2009 (da ricordare la sognante “The Party”, la particolare “The Bed”, la più composita “The Strangers” e con esse “Actor Out Of Work”, “Laughing With A Mouth Of Blood”, “Marrow” …) e “Strange Mercy” del 2011 (che calava un piazzato poker in apertura con “Chloe In The Afternoon”, “Cruel”, “Cheerleader”, “Surgeon”, oltre al bel brano eponimo “Strange Mercy” e all’interessante “Dilettante”), lavori discografici questi sicuramente pregevoli ma che iniziavano a mostrare però qualche cenno di ripetitività; ciò fino alla la “nota” e proficua collaborazione con David Byrne del 2012 per il riuscito “Love This Giant”, da cui fu tratto il funzionale singolo “Who”, e in cui spiccavano anche “Weekend in the Dust”, “I Should Wacht TV”, “I Am An Ape” … per un disco a suo modo compiuto (nel 2013 St. Vincent e Byrne pubblicheranno anche l’EP “Brass Tactics” in cui sono presenti versioni live di “Marrow” e di “Road To Nowhere” dei Talking Heads); del 2012, poi, da menzionare anche il “violento” 7″, per il Record Store Day, “Krokodil” e il singolo “Cheerleader” in doppia versione anche acustica.
Sempre nel 2009, St. Vincent e i Bon Iver di Justin Vernon (non posso esimermi dal non ricordare il loro bellissimo “For Emma, Forever Ago” del 2007) incidono “Rosyln” per la saga di The Twilight.
La collaborazione con David Byrne aveva fornito a St. Vincent nuova ispirazione e i tanti pregi dell’esordio si affinavano e si rinnovavano in “St. Vincent” del 2014 (probabilmente il suo disco migliore e più “commerciale” in senso positivo del termine, anche se lo scrivente, pur riconoscendogli una “superiorità”, per un suo gusto personale, gli preferisce “Marry Me”) che, sebbene conservasse il vulnus denunciato all’inizio dell’articolo, mostrava una maggior coerenza di scrittura all’interno sia dei singoli brani che del disco stesso oltre ad aumentare l’elettrificazione del tutto; “Rattlesnake” e “Birth In Reverse” ne sono testimoni sin dall’inizio del Side A al pari del già precedente singolo “Bad Beliver”, disco che poi si esaltava in “Prince Johnny”, “Digital Witness”, si rilassava con “I Prefer Your Love”, ben sfogava i suoi umori in “Bring Me Your Loves” (per la St. Vincent a me più gradita). Nel 2015, da annoverare, poi, il personale e gradevole singolo “Teenage Talk”.
Purtroppo dopo “St. Vincent” non vi è né miglioramento né conferma e con “Masseduction” del 2017 sembra che St. Vincent si sia votata a una cercata commercializzazione (“Hang On Me”, “Sugarboy” …) questa volta meno artistica ma sicuramente più vicina al grande pubblico. Se il brano più “ardito” come “Pills” perde di coerenza strutturale, i due celebrati “Los Ageless” e “New York”, la collaborazione con Joy Williams in “Slow Disco” e la stessa “Masseduction” (vincitrice nel 2018 della categoria Best Rock Song ai Grammy Awards), sollevano le sorti di “Masseduction” unicamente in termini di successo; sotto il profilo strettamente “qualitativo”, invece, solo a fondo del disco, con “Smoking Section”, tra la nebbia traspare della luce. Sta di fatto che “Masseduction” porta St. Vincent sulla ribalta mondiale (Grammy Awards docet) e si può dire che quindi abbia raggiunto pienamente il suo scopo; porta con sé (e dei suoi brani) anche versioni remix, alternative e dapprima nel 2018 una “riproposizione” del disco per solo pianoforte con il titolo “MassEducation” e poi una versione a cura di Nina Kraviz “Nina Kraviz Presents Masseduction Rewired” del 2019.
Si deve dire che “MassEducation” è (a parere di chi scrive) molto più interessante della versione “madre” oltre a essere un’operazione ben riuscita e bella nella sua interezza, in cui emerge la scrittura e l’interpretazione di St Vincente in modo puro, senza sovrastrutture, e con degli arrangiamenti di pianoforte, affidato a Thomas Bartlett, sapienti (basterebbe il solo confronto tra le due “Masseduction” o tra le due “Los Ageless” per calibrane il valore).
Il successo di “Masseduction” si riverbera in “Daddy’s Home” del 2021, in cui St. Vincent padrona del suo destino, decide di virare su un disco dal gusto retrò funk/soul anni settanta riletto con i contemporanei mezzi e con la sua sempre personale visione. Le risorse non mancano, i mezzi nemmeno, e il risultato è un lavoro discografico perfettamente confezionato che si lascia ascoltare piacevolmente con brani a cui non si può imputare nulla (“Pay Your Way in Pain” – che vedra anche un remix firmato Idles -, “Down And Out Downtown”, “Daddy’s Home”, “Live in the Dream”, “Down”, “My Baby Wants a Baby”, “… At the Holiday Party” …), ma anch’essi vestiti di una follia programmata. Da segnalare, sempre nel 2021, il 7” per il Record Store Day contenente la cover di “Sad But True” dei Metallica e di “Piggy” dei Nine Inch Nails di Trent Reznor, il remix del brano di Paul McCartney “Woman And Wife”, la colonna sonora “The Nowhere Inn” e, nel 2022, una versione della famosa “Funkytown” per i Minions ribattezzata “Funkytown (From ‘Minions: The Rise Of Gru’ Soundtrack)”; una colonna sonora che vede tanti brani classici e come esecutori, tra l’altro, anche Diana Ross, Tame Impala, Caroline Polachek, Brittany Howard, Thundercat …. (solo per citarni alcuni).
“All Born Screaming” (e il passaggio alla Total Pleasure Records/Virgin Music Group) riportano St. Vincent nuovamente su territori di alt e art pop segnati però da suoni più rotondi e caldi e da un’apparente semplificazione negli arrangiamenti che ostentano minore autoreferenzialità.
Apre il disco la bella “Hell Is Near” che, ricalcando gli stilemi degli esordi, è composta da una riuscitissima prima parte “radiofonica” alla quale si contrappone una seconda sperimentale che conduce all’altrettanto bella “Reckless”, anch’essa divisa drasticamente tra un sofferto e imbrigliato crescendo e un violento e martellante elettroshock.
“Broken Man” è ammiccante e esatto singolo (non a caso a tale compito destinato) di “rock” senza tempo, travestito però di contemporaneità e trasudante grasso che cola …: altro brano messo a segno.
Anche “Flea” si mostra vincente, con un ipnotico riff/strofa a cui si intervalla un “preciso” ritornello; non manca il bridge “colto” e “alternativo” miscellanea di fusion, prog …
Chiude il Side A, il clubbing cibernetico e funk deviato di “Big Time Nothing”, per un primo lato di un vinile sino a questo momento impeccabile.
Il tempo di girare lato e “Violent Times” stupisce e “arresta” un cuore umano in film noire del futuro.
In “The Power’s Out” tornano abrasioni nella dolcezza.
“Sweetest Fruit” pecca di banalità per il momento “videogame” meno riuscito dell’intero disco.
La un po’ “tropicale” e un po’ “jamaicana” “So Many Planets”, sebbene più che interessante e testimone della trasversalità di St. Vincent, appare a un primo ascolto fuori contesto e mood, se non trovasse poi giustificazione nella successiva “All Born Screaming”.
La conclusiva “All Born Screaming” (featuring Cate Le Bon) condensa i capricci di St. Vincent, in una miscellanea di suoni e stati d’animo che dallo scanzonato, “assolato” e “balneare” vanno al solenne, per quello che sembra un esercizio stilistico, sebbene di indubbia qualità.
Teminato l’ascolto si può concludere che “All Born Screaming”, soprattutto nelle sue prime sei tracce, si collochi a metà strada tra “St. Vincent” e “Masseduction”, raccogliendo l’eredità “colta” del primo e il gusto “commerciale” del secondo, confermando la mia convinzione di come sia incredibile che St. Vincent riesca sempre a camminare sul filo, restando in equilibrio tra il mainstream e l’iperbole.
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