James Brandon Lewis nel 2023 dava alle stampe il bel “Eye Of I”, disco che si concludeva con la splendida “Fear Not” realizzata in collaborazione con i “The Messthetics”; connubio tanto interessante quanto riuscito, considerando la differente provenienza dei musicisti coinvolti.
Con questo sodalizio, nel 2024 viene pubblicato, per la storica etichetta jazz “Impulse”, un nuovo disco, (addirittura) a nome The Messthetics and James Brandon Lewis.
Operazione che, per chi ha amato i The Messthetics, trio composto Joe Lally e Brendan Canty (rispettivamente bassista e batterista dei Fugazi) e dal versatile chitarrista Anthony Pirog, può trovare pieno valore e senso nei solchi della loro ottima discografia, quasi come fosse una naturale evoluzione.
Già su “The Messthetics” del 2018 e “Anthropocosmic Nest” del 2019, comparivano infatti brani come “Once Upon A time”, “Section 9”, “Pay Dust”, “Pacifica” “La Lontra”che mostravano sonorità prossime alla fusion, notturne visioni come “Your Own World”, “The Inner Ocean” … e momenti più acustici e morbidi come “The Weaver”.
Anthony Pirog, nel suo poliedrico uso della chitarra, aveva inoltre da sempre espresso simpatie verso aperture al jazz; si pensi a “Trio/Sextet” del 2011 o a “Steven In The Light” da “Beginning To End” del 2009, oltre a collaborare proprio con James Brandon Lewis in “No Filter” del 2016.
James Brandon Lewis, per suo conto, oltre ai dischi a suo nome, vantava già co-pubblicazioni di rilievo, si pensi a “Radiant Imprints” e “Live in Willisau”, con l’iconico batterista Chad Taylor (Chicago Underground, Jaimie Branch, Jeff Parker, Marc Ribot, Sam Prekop, … per citarne solo alcuni).
E così “The Messthetics and James Brandon Lewis” non tradisce le aspettative … sin dall’esatta apertura affidata a “L’Orso” in cui, su di una sezione ritmica tanto essenziale quanto mobile, la chitarra abrasiva e distorta di Pirog rompe il tema jazz del sassofono di Lewis.
“Emergence” è il primo piccolo gioiello, fusione tra (indie)rock e jazz … con i continui passaggi tra universi sonori tanto distanti me così vicini e con un attacco di sassofono che evoca per intensità e forza quel capolavoro che è “Encuentros” di Gato Barbieri.
In “That Thang” manca solo la voce di Demetrio Stratos per renderla un classico in stile Area, prima che l’assolo, ai limiti del noise, di Pirog si contrapponga a quello di Lewis.
L’arpeggio di chitarra di “Three Sisters” introduce più desolate e rilassate lande prima che un inatteso cambio di registro sprofondi in un’esatta sovrapposizione di assoli di “fiati” e “corde” disegnando un altro momento di pregio.
“Boatly” è assolata e riflessiva nel suo incedere desertico con richiami folk che conducono a un solenne crescendo da requiem epico.
L’eccelsa “The Time Is the Place” si impone per il suo mood sospeso tra il poliziesco e il metropolitano e per le improvvise accelerazioni fatte di abrasioni e strali … sintetizzando una capacità di scrittura in cui anche gli elementi opposti riescono a convivere con equilibrio tanto formale quanto sostanziale in una caleidoscopica alternanza di jazz, rock, progressive, metal …
Se “Railroad Tracks Home” è fumosa notturna strada statale … la notte, in “Asthenia”, si fa profonda, intima e rarefatta.
La sostenuta “Fourth Wall” con i suoi contrasti, i suoi assoli e le sue “ossessioni” ritmiche … chiude un disco pressoché perfetto che va oltre il jazz, oltre il rock … e ancora oltre …
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