L’industriale americano degli anni ’30 produttore della celebre Tucker Torpedo ispira il nome a questa piccola ma vigorosa band napoletana, ed è lo stesso gruppo a confessare che più che l’uomo si sono lasciati ispirare dal sognatore perché “L’idea è che nella vita ci sia sempre bisogno di un sogno per far muovere tutto”.
Possiamo ben immaginare quale sia il sogno dei tre giovani musicisti, ovvero Flavio G. Romano (voce, chitarre, synth, computer programming), Giacomo Salzano (produzione, basso, cori) e Roberto Amato (basso, synth, cori), eppure la band, nata appena un anno fa, già si muove con prestazioni live nei club partenopei e la partecipazione a qualche festival per raggiungere il suo sogno. Sarà forse perché Giacomo Salzano viene dagli Stella Diana, ed è stato collaboratore anche con altre band partenopee, e dunque una certa esperienza c’è già e si sente.
Fatto sta che il basso che spunta dall’intro di Spaceball, primo episodio del breve Ep intitolato semplicemente “EP 01”, subito seguito da un arpeggio grintoso di chitarra e ben sostenuto dai charleston, ci introduce subito in una dimensione emotiva fortissima, onirica, cavalcata immediatamente dalla voce di Flavio Romano, che senza nemmeno troppo nasconderlo si ispira al Pelù dei tempi andati (quelli di Desaparecido e di 17 Re) e a Giovanni Lindo Ferretti, soprattutto per la scelta “parlata” del suo vocalizzare.E così, per la voce ma anche per la struttura musicale, che rifiuta virtuosismi e assoli o schitarrate, e si limita a disegnare trame evocative, davvero sembra di risentire gli echi di quanto meglio è stato fatto in Italia nella splendida stagione rock dei primi anni ’80 fra Litfiba, CCCP e Diaframma.
E’ ancora il basso a introdurre Technicolor, una lieve e incantata ballata su cui la chitarra ‘ecoizzata’ non sembra vedere l’ora di disegnare i suoi dolci e soffusi arpeggi. La voce ancora recita, più che cantare, ma è la dimensione giusta per sposarsi con la delicatezza del brano.Fuori, dei quattro brani, è forse l’episodio meno compiuto e convincente, più che altro perché il ritmo cadenzato e militare non riesce a esplodere in una conclusione, che sembra evocata dall’inizio ma che alla fine non si manifesta. E tuttavia anche qui si ascolta l’immenso potenziale di questi ragazzi, che sembrano davvero aver viaggiato nella macchina del tempo per tirare fuori dal cilindro il meglio del post-punk e ipno-rock che l’Italia abbia prodotto.Colpisce soprattutto, come si ascolta anche in Se, che i ragazzi sappiano esattamente dove andare a pescare per la loro ispirazione, e sappiano anche come riprodurla in forma intrigante attraverso i pur limitati mezzi che sono consentiti da una totale autoproduzione come è questo Ep, registrato al Vipchoyo Studio di Napoli e completamente self-made.
Tutte le componenti, musica e voce, e certamente anche i testi, evocativi e non nitidi né conclusivi, sono nei Preston Tucker Project completamente dedicati a costruire atmosfere dark e oniriche, rigorosamente da rock psichedelico, e con una straordinaria purezza dei suoni: i tre si presentano nella classica composizione di batteria basso voce e chitarra, e c’è poco spazio, il giusto necessario, per i synth e la post-produzione. L’ep è troppo breve per un giudizio definitivo, ma se questo è l’assaggio il piatto sembra davvero annunciarsi dei più golosi.
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autore: Francesco Postiglione