La vicenda di Bella Baxter (interpretata da una straordinaria Emma Stone) è a tratti simile a quellla della Creatura del dott. Frankenstein, solo che qui la protagonista è vulvodotata e questo basta a solcare la differenza.
Non può essere orrenda, deve essere necessariamente attraente, a beneficio degli uomini che la incontreranno, e, ça va sans dire, praticamente priva di cervello, almeno per gran parte del film. O meglio, dotata del cervello del feto che portava in grembo (e già soltanto questo è un orrore per tutto il portato che ha in sé). Del resto, a una donna bastano la bellezza ed essere oggetto (di curiosità, accudimento, desiderio) per esistere.
Quel piccolo cervello ricoperto di lunghi capelli mori, restituito alla vita dal dottor Godwin Baxter (un uomo immolato all’empirismo, deturpato dalla scienza e suo deturpatore) è una testa matta. Incapace di vivere e però affamata di vita, di conoscenza, di esperienza.
In un articolo di recente apparso su Science, a firma di Elizabeth Pennisi, sottolinea come la lingua abbia avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione dei vertebrati. Strumento di conoscenza primario, -i bambini saggiano il mondo, portandolo alla bocca -, quell’organo pare avere un ruolo importante nello sviluppo delle capacità cerebrali. Non è così per Bella, che pure non ha lesinato sull’uso dell’organo e a cui però è bastato mettersi una mano tra le gambe per vedersi schiusa un’improvvisa e travolgente onniscienza.
“Tota mulier in vulva” verrebbe da dire, scimmiottando una pietra miliare del femminismo, Simone de Beauvoir, e il rischio è di vedersi orde di pseudo femministe gridare all’eresia per una posizione simile.
Dov’è il femminismo di Bella? Nel fatto di praticare un ethos altro? Apparentemente estraneo al patriarcato in una cornice però che ne incarna tutti i principi e gli stilemi. A partire dall’ambientazione e i costumi, capaci di produrre un effetto di straniamento siamo nella pubblicità del nuovo profumo di Dior, Chanel o nel nuovo videoclip di Bjork? E pertanto pienamente sotto l’egida del capitalismo, dei suoi dogmi e dei suoi simboli.
E cosa dire di quel padre – padrino-patrigno dal nome che richiama immediatamente a quell’altro padre che concede alla sua Bella-Eva il dono di servirsi del suo “libero arbitrio” e di inseguire il proprio desiderio o, meglio, quello della persona a cui è affidata, prima di tornare alla casa paterna e sottoporsi al matrimonio contratto e ai suoi doveri.
Bella obbedisce e agisce in virtù di quel vincolo, senza mai metterlo in discussione, come troppe signorine di buona famiglia hanno sempre fatto, sin della notte dei tempi. Una sorte di addomesticazione del desiderio, di suo concesso appagamento, prima di soffocare nel talamo nunziale.
E che fastidio pensare che basti far dire ad uno dei personaggi che è socialista per fare di un film una rivoluzione. Che tristezza, quanta aridità!
E quanta irritazione nel veder insieme elemosina, truffa e disfatta, camuffati da ingenuo “risolutismo”, svelare un cinismo qualunquista che si finge realista e che è invece solo profondamente conservatore.
E quanta tristezza, ancora, vedere quell’essere poco più che automa legittimare la propria prostituzione, che poi altro non è che quella di tutto il mondo salariato, contrattare solo per sé, senza istruire le altre sul modo per farsi puttana senza subirla la prostituzione e raggiungere la propria sussistenza e benessere col minimo dello sforzo e il massimo dei risultati.
E che sollievo per Bella, invece, sapere di appartenere ad un’altra di storia, di avere una promessa (il matrimonio col dottor Max, interpretato da Ramy Youssef), poco più in là e una casa a cui tornare, di certo anche una carriera (del resto la ragazza è figlia “d’arte”), in un mondo distopico e che proprio non è tanto diverso da quello in cui viviamo.
Gli effetti “waw!” (con un uso disinvolto di grandangolo e lenti fish-eye) e le visioni distorte servono a poco, quando tesi a sorreggere una struttura fragile. L’impressione è che sia tutto già visto con quelle ambientazioni, i personaggi e le vesti che ricordano il Tim Burton dei bei tempi, i richiami a Rainer Werner Fassbinder (a partire dall’apparizione di Hanna Schygulla nei panni di e quell’occhiolino strizzato a Fritz Lang e il suo Metropolis.
Tratto dall’omonimo romanzo dello scozzese Alastair Gray, Povere Creature di Yorgos Lanthimos è candidato agli Oscar come miglior film. Già vincitore del Leone d’Oro a Venezia, quello del regista greco si rivela come un film ricco di suggestioni e povero, poverissimo di idee.
Fare il fenomeno è rischioso, specie quando si ignora totalmente (o almeno, è quanto traspare) il terreno in cui ci inoltra. E non sempre possono bastare ottimi attori, ambientazioni suggestive e patinate a dare sostanza all’effimero.
POVERE CREATURE
Regia: Yorgos Lanthimos
Attori: Emma Stone, Mark Ruffalo, Willem Dafoe, Ramy Youssef, Jerrod Carmichael, Margaret Qualley, Christopher Abbott, Kathryn Hunter, Damien Bonnard, Roderick Hill, John Locke, Jeremy Wheeler
Paese: Irlanda, Gran Bretagna, USA
Durata: 141 min
Distribuzione: The Walt Disney Company Italia
Sceneggiatura: Tony McNamara
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Yorgos Mavropsaridis
Musiche: Jerskin Fendrix
Produzione: Searchlight Pictures, Element Pictures, Film4