Ci sono film che agiscono in maniera carsica, scavano lentamente e a fondo. Ci sono opere che si offrono come la crosta di un millefoglie, pensi che il sapore è tutto nella crema e intanto sono quei piccoli strati croccanti a scatenare il piacere.
Ci sono film che valgono il viaggio: sono lì per essere guardati, per farsi esperienza, solo col tempo però sanno farsi ispirazione, esaltazione, sapienza.
Ci sono racconti che forse in futuro non saremo più in grado di fare: storie per scalatori, che sanno gestire ritmo, fiato e tempo, che sanno governare le situazioni meteorologiche come le variabili emotive e sono attrezzati, o almeno ci provano, a farvi fronte. Narrazioni che hanno la perfezione e la semplicità di un haiku. Sibillini? Forse. Ma una volta trovata la chiave d’accesso, capaci di offrire un mondo.
Ci sono film perfetti, come Perfect Days di Wim Wenders (candidato agli Oscar come miglior film straniero), che ci ricordano quanto abbiamo bisogno di grandi autori, capaci di parlare senza dire e di usare il cinema esattamente per il mezzo che è: una straordinaria alchimia di visione, narrazione, acustica. E Wenders lo fa sapientemente. E così gioca con le corde emotive dello spettatore: le solletica, le sollazza, le pizzica, le spezza. In una sequenza ritmica che si fa sinfonia ed emozione pura.
Gioia, stupore, fastidio, lacrime, speranza, spaesamento, frustrazione, tedio: è la tavolozza con cui l’autore plasma il suo film. Sullo sfondo la vita apparentemente piana e noiosa di un uomo qualunque. Un povero e onesto lavoratore, felice della conquistata serenità di giornate sempre uguali, dove tutto è sotto controllo (le monete, le chiavi, l’orologio, il tatami con le coperte da piegare, il caffè, i bagni pubblici, la lavanderia, i soliti posti dove sentirsi a casa e mangiare) e dove una volta fatto il proprio dovere, può trovare spazio anche per le piccole gioie come le parole di un buon libro e delle canzoni amate.
Quella di Hirayama (magistralmente interpretato da Koji Yakusho, vincitore della Palma come miglior attore durante l’ultima edizione del festival di Cannes), addetto ai bagni pubblici del quartiere di Shibuya, a Tokyo, è la vita di milioni di persone sulla terra. È la vita di chi conta su un lavoro decente, in grado di garantirgli una quotidianità modesta, a tratti serena, purché gli imprevisti dell’esistenza ne rimangano fuori. Purché ci si imponga metodo, quasi una disciplina e si sia dotati di una consapevolezza tale da non lasciarsi risucchiare dal lavoro.
Il lavoro non è vita, ma è un mezzo di sussistenza, sembra ricordare Wenders. Che proprio come il protagonista del suo film prova a svelare la bellezza della luce nelle fronde della quotidianità, è il komorebi (lett. la luce che filtra tra le foglie degli alberi), che Hirayama prova a catturare con la sua Olympus analogica, ogni giorno.
E così tra le pieghe di un film apparente innocuo, sveliamo la profondità di una critica velata e poetica all’impero capitalista e al mito della performance e della posizione sociale su cui esso si fonda, e quale luogo migliore per incastonare un tale piccolo racconto esemplare se non nel cuore della punta più avanzata del turbocapitalismo, se non Tokyo e la sua Shibuya, la città simbolo dell’armistizio tra cultura e tradizione millenaria e postmodernità? Se non il Giappone, terra estrema, capace di preservarsi pur vivendo immersa nell’ipermodernità, in grado di mostrarne gli effetti più deteriori e però di raccontare anche gli antri immacolati di umanità, piccoli trampolini dai quali rilanciare e non smettere di desiderare e praticare una vita altra, più vicina all’umano, un’esistenza capace di leggere e ascoltare, curare, sanare, accogliere.
E poco importa se qualcuno ha raccontato di una sensazione di déjà-vu, accostando quello di Wenders al Paterson di Jim Jarmush (Clarisse Fabre su Le Monde), sarebbe troppo uno spreco di fiato ribadire che il cinema è un eterno ritorno di storie e miti che si ripetono, seppure in forma traslata. Che è un eterno détournement, cifra necessaria all’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica.
È la perdita dell’aura. La chiamiamo arte, ma in questa società fondata su capitale e consumo è tutta un’industria. E ora con l’avanzare dell’automazione applicata alla creatività, finiremo per farci spiegare dalle macchine cosa significhi l’umano. Ma almeno qui, all’inumano non è chiesto di farsi altro. E neanche di sostituirsi ancora all’esistente.
E anche in questo senso quella di Wim Wenders è una chiara presa di posizione: per quanto automatizzata, per quanto privata di ogni sbavatura ed eccedenza, – appare come una “vita- catena di montaggio” quella di Hirayama -, è impossibile restare imperturbabili, tenere fuori dall’esistenza il cambiamento, che ha il volto di una ragazzina, di un collega bislacco e della tanto amata nipote o di una sconosciuta ingrata e una sorella ripudiata; e che, ogni volta, può essere causa di grandi gioie e di dolori. E cioè di vita. E poco importa se sarà impossibile catturare le ombre, conoscerne consistenza e tonalità: l’importante è non smettere mai di avere voglia di andarvi incontro, magari con una bella musica di sottofondo.
Ps. E poco importa che il film sia frutto di una commissione, che sia null’altro che una lunga e sapiente pubblicità. Un documentario per raccontare il Tokyo Toilet Project, iniziativa della Fondazione Nippon, ricca e influente organizzazione benefica che finanzia progetti di welfare sia in Giappone che in altri paesi. Lo scopo del progetto, avviato nel 2018, era di eliminare l’idea che i bagni pubblici fossero luoghi da evitare e così, incentivarne all’uso. La Fondazione aveva scelto Wenders per il rapporto che l’autore ha con il Giappone e la sua cultura , testimoniato da Tokyo- Ga, omaggio a una delle pietre miliari del cinema giapponese, Yasujirō Ozu.
Pss. La colonna sonora è un boost di felicità (da Nina Simone a Lou Reed ovviamente, passando per Patty Smith, The Animals, Otis Redding e altri) scientemente strozzata sempre sul più bello!
PERFECT DAYS
Regia: Wim Wenders
Attori: Kôji Yakusho, Min Tanaka, Tokio Emoto, Aoi Yamada, SayurI Ishikawa, Arisa Nakano, Yumi Asô, Tomokazu Miura
Paese: Giappone
Durata: 124 min
Distribuzione: Lucky Red
Sceneggiatura: Takuma Takasaki, Wim Wenders
Fotografia: Franz Lustig
Montaggio: Toni Froschhammer
Musiche: Patrick Watson
Genere: Drammatico