C’eravamo congedati su queste pagine con la colonna sonora “The Almond & The Seahorse” del 2023, prima che Gruffudd Maredudd Bowen Rhys desse alle stampe il suo ultimo disco “Sadness Sets Me Free” (Rough Trade), tornando così a scrivere senza apparenti vincoli o riferimenti terzi.
L’ex Super Furry Animals (dei quali non si può non citare l’esplosivo esordio del 1996 “Fuzzy Logic”), con “Sadness Sets Me Free”, riprendendo quanto interrotto con il precedente “Seeking New Gods” (del 2021), si accomoda con maggior compostezza ed omogeneità su un morbido, raffinato ed elegante cantautorato con richiami al folk, all’indie rock, al pop colto e al soft rock venato di jazz (torna alla mente “Babelsberg” del 2018), e abbandona quasi totalmente le abrasioni (si pensi a “Hiking in Lightning” dal citato “Seeking New Gods”) e talune “iperboli” (si pensi a “Everlasting Joy”, sempre dal citato “Seeking New Gods”); il tutto come da subito evidenziato con il brano eponimo di apertura, la cui coda finale è emblematica nel condurre a “Bad Friend”, elegante ed esatto singolo tanto radiofonico quanto “indie”.
A ben sentire tutto il disco “gira” seguendo queste direttrici, mantenendo nel complesso un ottimo livello e un ascolto piacevole e rilassato che passa, senza soluzione di continuità timbrica, per l’affascinate “Celestial Candyflos”, miscellanea di umori, la sostenuta e crocieristica “Silver Lining (Lead Balloons)”, la trascinate e da tardo meriggio “On the Far Side of the Dollar”, con qualche sussulto, ora caldo e assolato come in “They Sold My Home to Build a Skyscraper”, ora cadenzato come in “Peace Signs” e “I’ll Keep Singing”; non manca, tra i solchi, lo spazio per la più introspettiva e complessa riflessione “Cover Up the Cover Up”, screziata di elettronica.
Nota fuori posto sono gli arrangiamenti “orchestrali”, a parere dello scrivente non sempre necessari e spesso ridondanti a cui Rhys spesso ricorre; riusciti sicuramente nella sinuosa e notturna “I Tendered My Resignation”.
Sembra che con il passar del tempo Gruff Rhys si sia liberato dalle reminiscenze psichedeliche in stile anni sessanta che avevano caratterizzato i dischi solisti degli esordi (per tutti “Candylion” del 2007, ricordiamo i 14:36 minuti di “Skylon!” e gli acquerelli di “Hotel Shampoo” del 2011 – probabilmente il suo lavoro solista migliore, sebbene marcatamente “nostalgico”), dai “patchwork” di “Yr Atal Genhedlaeth” del 2005, così come abbia abdicato da alcuni barocchismi, e stia procedendo su un percorso meno accidentato, più rassicurante, personale e intimo come in parte già ottimamente tracciato con “Babelsberg” del 2018.
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