Prima di recensire un disco degli Orchestral Manoeuvres In The Dark, conosciuti anche come OMD, va subito effettuata una doverosa precisazione: ci stiamo muovendo in un ambito a confine tra l’elettronica e il pop, elemento, quest’ultimo, che se da un lato li ha resi rei di un piglio troppo “commerciale” per gli amanti delle sperimentazione più pura, dall’altro li ha sdoganati verso le grandi masse.
Infatti, sebbene le ispirazioni e i richiami al Krautrock tedesco, con particolare riferimento ai Kraftwerk (il loro disco di maggior successo, non a caso, si intitola “Organisation”, nome che non può sfuggire ai cultori di Ralf Hütter e Florian Schneider e al loro “Organisation zur Verwirklichung gemeinsamer Musikkonzepte”) e in parte ai Neu!, sono evidenti, lo sguardo verso la “wave” di quegli anni e il gusto per una marcata melodia e fruibilità li ha resi mainstream all’esatto punto di riscuotere, nei primissimi anni ottanta, un enorme successo.
Se l’omonimo disco del 1980 si era imposto con i brani/singoli “Electricity” e “Messages” (gli OMD celavano comunque tra i solchi dei “singoli” anche più “complesse” esternazioni come “Betray My Friends” e “Taking Sides Again”, rispettivamente Side B dei singoli “Red Frame/White Light” e “Messages” – nella versione estesa del singolo “Messages” è presente anche un omaggio ai The Velvet Underground con “Waiting For The Man”; oggi, in formato liquido, anche queste registrazioni sono facilmente reperibili), è il già citato “Organisation” (anche esso del 1980) che rappresenta la svolta per gli OMD, un disco che rappresenta un’“epoca” e a suo modo un “genere”, incarnando un synth pop perfettamente in equilibrio tra elettronica, pop e atmosfere al contempo “scure” e romanticamente tristi: ne sono esatti testimoni la celebre “Enola Gay” e “Statues”.
Come spesso accade, senza volerlo, si compongono trittici, e a completare quello degli OMD è l’altrettanto valido “Architecture & Morality” del 1981; ciò sebbene il successivo “Dazzle Ships” (del 1983), con le sua esasperazione sonora, pur segnando un passo verso un distacco dall’ambito commerciale, si ponga su livelli compositivi di rispetto. Del disco, la sola “Telegraph” conserva un piglio propriamente “radiofonico” di rilievo.
Quanto accadrà negli anni a seguire, nel bene e nel male, appartiene alla storia di tanti gruppi, con alti, medi e bassi, cambi di rotta e contaminazioni, e più che dischi, da portare all’onore della cronaca sono brani sparsi nel tempo, per una produzione ondivaga che, inaspettatamente, trova rinnovata vigoria ma soprattutto compattezza d’insieme, con l’ottimo “Bauhaus Staircase” (White Noise, 100%), evidente riferimento nel titolo all’omonima opera di Oskar Schlemmer.
Con un saggio e oculato ritorno al passato, Andy McCluskey (voce, tastiere e basso), Paul Humphreys (tastiere e voce), Martin Cooper (tastiere) e Stuart Kershaw (batteria), confezionano un disco retrò ma di grande effetto.
L’amore per i Kraftwerk (e il Krautrock) riemerge e si fonde a un riuscitissimo gusto pop, per un lavoro discografico che nel compresso non mostra punti deboli.
Sin dall’apertura affidata a “Bauhaus Staircase”, le direttrici sono definite con lucida funzionalità, tra la melodia del testo, il ritmo serrato, gli inserti di elettronica e il tema strumentale.
“Anthropocene” (a parere dello scrivente uno dei più bei brani del disco) è perfetta sintesi tra musica da club teutonico di fine anni settanta e autostrade cibernetiche; una corsa nella notte in cui tutto suona con esattezza, dal tema strumentale alla linea vocale e con una voce narrante che annuncia: “Anthropocene/The current geological epoch/Dating from the commencement/Of significant human impact/On Earth’s geology and ecosystems/Including anthropogenic climate change … One hundred years before now/Global human population is two billion/Ten years before now/Global human population is seven billion/One million years after now/Global human population is Zero”.
“Look at You Now” ha il pathos da titoli di coda di un film/romanzo.
“G.E.M.”, con il suo robotico incedere e le aperture, è ritorno a un teutonico passato.
“Where We Started”, “Veruschka” e “Don’t Go” (già presente come “singolo” in pubblicazioni precedenti), sebbene con registri differenti, marcano il territorio del synth pop più tradizionale e funzionale.
Se “Slow Train” rallenta i battiti con un electro-rock deviato, “Kleptocracy” li accelera fino al confine del ballabile.
“Aphrodite’s Favourite Child” apre il respiro con un volo prima che il tutto precipiti nei metalli da laboratorio alieno di “Evolution Of Species”.
“Healing”, quasi a condensare l’intero ascoltato con un’inesplosa esultanza, congeda con pacata eleganza la ritrovata scrittura degli Orchestral Manoeuvres In The Dark.
Se a “Organisation” si può imputare l’evidente peccato di essere “anacronistico”, resta solo un peccato veniale pienamente assolto dalla riuscita di un lavoro discografico che, se pubblicato quarant’anni (circa) fa, sarebbe stato un piccolo capolavoro.
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