Venticinque anni fa nascevano i Mudhoney, la band che più di tutte nel grunge ha avuto a che fare con le distorsioni punk e con le schegge soniche. Con il loro primo vagito, il fenomenale “Touch me I’m sick”, diedero il via a quella che da molti è stata definita l’ultima grande rivoluzione in ambito rock, il grunge appunto.
Insieme ai Pearl Jam, i Mudhoney, sono gli unici sopravvissuti di quell’epopea. E’ vero si sono riformati Soundgarden ma la sensazione che suscita la reunion è che la motivazione sia soltanto una: soldi.
La band capitanata da Steve Turner e Mark Arm, invece, non solo continua a suonare ma, a differenza dei Pearl Jam, è rimasta totalmente fedele al verbo “grunge”.
“Vanishin point” è stato pubblicato con questa funzione, dimostrare che i singulti e le vibrazioni di venticinque anni sono ancora vive e vegete e hanno ancora tanta voglia di esprimersi e di far saltare il pubblico. Dopo i passaggi psichedelici dei primi anni zero, il quartetto di Seattle ha ripreso interamente lo spirito veloce e distorto degli esordi.
In pratica con questo disco i Mudhoney hanno fatto un bel salto all’indietro, riportandoci alla coniugazione tra il proto-punk stoogesiano e gli ardori punk e hard della seconda metà degli anni ’80. In trentaquattro minuti stimolano in continuazione l’ascoltatore tra schegge punk sferraglianti di “I like it small”, la rabbia espressa in “In the rubber thomb” e lo splendido punk-blues sincopato e hardcore di “Chardonnay”.
Lasciano poco spazio a psichedelia e melodia (“Sing this song of joy”), preferendo decisamente momenti più rocamboleschi espressi soprattutto in “I don’t remember you”, nella quale il quartetto si guarda alle spalle e omaggia se stesso. Non è narcisismo, è autorevolezza e sano orgoglio per aver fatto ed essere ancora in grado di fare cose semplici dirette, punk con tanto ardore e freschezza.
Ascolta i brani:
– I Like It Small
–The Only Son of the Widow from Nain
autore: Vittorio Lannutti