Diffuso per etichetta Anti-Records, i The Drums hanno rilasciato il sesto album in studio dal titolo Jonny. La band del fortunato singolo Money, e del relativo disco Portamento, salita al prestigio dell’alt-pop che ammicca ai fifties quasi quindici anni fa con un rinomato debutto autointitolato, si trasforma qui in un coro di anime che fa da sfondo al progetto più sfacciatamente e sorprendentemente autobiografico e personale del leader e vocalist Johnny Pierce, al punto da chiamare il disco col nome del protagonista principale della band e della storia raccontata nel disco. Ne viene fuori un concept album di sfolgorante freschezza e bellezza, dalle canzoni ariose e solari, come quelle dei Beach Boys a cui la band si ispira a volte, ma che dietro i toni giocosi e sereni della musica affronta in realtà temi strazianti.
La storia narrata nel concept album affronta il profondo trauma infantile che il membro fondatore della band ha vissuto crescendo in una comunità religiosa simile a una setta a nord di New York seminando ricordi oscuri sulla sua vita e sulle sue relazioni per anni. Better, il singolo più recente e ultima canzone del progetto, si avvale di un ritmo luminoso e allegro ma parla di come uscire dalla co-dipendenza e ritirarsi di nuovo tra le braccia affidabili della solitudine.
L’album racconta di traumi forti, per esempio in Isolette (termine francese per definire l’incubatore) Pierce racconta al mondo il fatto che la madre fu costretta a rompere le acque in anticipo quando era incinta di lui e dunque è stato subito messo in un incubatore. L’infanzia infelice che poi ha vissuto lo porta a cantare, oggi, di “essere tornato nella Isolette”, come dice il ritornello martellante della canzone che ha il ritmo più avvincente e divertente. “Mia madre era stata violata all’epoca della mia nascita e io ero diventato un simbolo di questo trauma. Lei si allontanò da me emotivamente, perciò a vari livelli spesso mi sento come se non avessi mai lasciato l’incubatore”.
L’indie pop ammiccante agli anni ’50 e a certi spunti canzonatori dei Clash, ma soprattutto vicino a quanto di buono è stato fatto fin qui nello stesso sotto-genere musicale dai mai dimenticati Glasvegas (che peraltro sono tornati dal nulla nel 2021 con un nuovo disco dopo ben 10 anni) non dà origine però un album oscuro, nemmeno nei testi. In Jonny, Pierce non si limita a sconfiggere l’oscurità che ha perseguitato la sua infanzia, ma la assolve e la ama per quello che è stata. Così facendo, il disco porta alla luce un vero senso di speranza, ottimismo e gioia, che si respira in ogni singolo riff e in tutta l’atmosfera musicale del disco, che davvero ci ricorda la West Coast dei tempi memorabili.
Il messaggio è questo: abbracciare il disordine della vita in tutte le sue sfaccettature, dissolvere tutti i muri che ci separano da noi stessi e dagli altri, ammorbidire il nostro guscio, raccontare in guisa di confessionale (non ha caso la copertina prevede un suo nudo in inchino da preghiera) l’adolescente che si è costruito di riflesso una corazza contro il mondo esterno, il performer sul palco, il ballerino, l’amante, insomma ogni versione di se stesso che per tutta la sua vita ha sentito di non essere mai abbastanza. Si capisce perché nella prima canzone Pierce canta I Want it All, ma si capisce anche perché l’album contenga una canzone straziante, Protect Him Always, in cui l’autore si riferisce al suo sé adulto incaricandogli di proteggere quel bambino sottratto alla protezione dal mondo che era l’incubatore dei primi giorni: “There’s a little child that lives in me / I just wanna protect him always / So sweet, so tender, still looking for his mother / He deserves only flowers”. Oppure si comprende bene quel che Pierce canta, in Little Jonny, promettendo a se stesso, “I’m never leaving your side”.
“Quando ho finito ‘Jonny’, l’ho ascoltato e ho sentito la mia anima riflettersi su di me“, dice Pierce a proposito del disco. “È devastante e trionfante, è persa e ritrovata, è confusa e certa, è saggia e sciocca. È maschile e femminile, è duro e gentile. Racchiudere tutto il proprio io in un album, onorare ogni singola parte di te – anche quelle che si sentono in contrasto tra loro – significa realizzare qualcosa di profondamente umano”.
L’artwork dell’album e del singolo ha una storia a sé che merita di essere raccontata nel contesto del significato del disco: lui stesso si è scattato una serie di autoritratti nudi quando è tornato nella sua casa d’infanzia a New York una decina di anni fa. Sentendo il bisogno di guidare verso il nord un giorno, mentre sapeva che i suoi genitori sarebbero stati in servizio, ha scattato una foto in posizione di preghiera sulla sedia dell’ufficio della chiesa di suo padre, tra gli altri luoghi della casa in cui gli era successo qualcosa di significativo o traumatico da bambino. Era un’esperienza a cui non riusciva a dare un senso sul momento, tanto meno a condividerla con il mondo esterno, ma la sensazione di mettere il suo corpo nudo negli spazi in cui gli altri lo avevano fatto sentire spesso impotente era un trionfo che avrebbe scoperto poi proprio durante la realizzazione di Jonny.
Ogni canzone ha un senso, ogni titolo un significato immediato e devastante: si comprende bene, data la storia, perché l’autore desidera chiudersi in una Plastic Envelope, perché è spaventato tutt’oggi (I’m still Scared), perché desidera gentilezza (Be Gentle), perché il simbolo della dolcezza sono i fiori di The Flowers. Si comprende perché l’album parla di ferite, Harms, e di morte, Dying, e non c’è bisogno di spiegare il titolo dell’ultima canzone, che per fortuna è declinata al passato, I Used to want to Die.
Si per fortuna è il passato per Johnny Pierce. Il presente è invece un successo come autore e come band, grazie alla sua musica fresca, ispirata, ariosa, solare ma malinconica sempre, ma soprattutto grazie a un disco che funge da catalizzatore e da catarsi, da confessione e da annuncio al mondo. Un disco bellissimo per melodie, musiche, ritmi, e stupendo per i contenuti così intimi e esistenziali. Senza dubbio il capolavoro sin qui della band.
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