Il 2023 è stato un anno scosso da pubblicazioni discografiche che hanno occupato le pagine dei “rotocalchi” e aperto dibattiti tra gli addetti ai lavori e gli appassionati di musica; ciò in quanto gli artisti coinvolti non erano nomi “comuni” ma autentiche icone che hanno fatto la storia della musica.
Se Roger Waters, con il suo “The Dark Side Of The Moon Redux” (pubblicato il 6 ottobre), ha catalizzato l’attenzione e alimentato l’attesa per la stagione primavera-estate, i The Rolling Stones, con “Hackney Diamonds” (pubblicato il 20 ottobre), hanno aperto la stagione autunno-inverno; anticipato da numerosi singoli e differenti “bright” e “dark” mix, Peter Gabriel ha poi annunciato la pubblicazione del suo “I/O” per il primo dicembre.
Non potevano quindi mancare all’appello i The Beatles che, con un colpo ad effetto, hanno “riesumato” una vecchia registrazione di John Lennon del 1979 e, con l’ausilio delle nuove tecnologie, dato alle stampe il singolo “Now and Then”, da Paul McCartney definito “l’ultima canzone dei Beatles”.
Non essendo però più in vita né Lennon, né George Harrison (le cui chitarre furono registrate nel 1995), è di palmare evidenza come “Now and Then” non possa essere, per arrangiamento finale (condiviso e concordato), figlia dei “quattro”.
Da quanto “percepito” on line, attraverso anche il “Short Film” promozionale, la versione “demo” registrata da Lennon, per pianoforte e voce, appare malinconica e intima, propria di una scrittura di un Lennon “distante” dal l’ultimo lavoro “congiunto” “Let It Be” e proiettato verso il (suo) futuro.
Va detto però che l’odierna versione di “Now and Then” mantiene questo umore e che presenta un tono emotivamente “forte” tanto nella strofa quanto nell’inciso; solido era il punto di partenza su cui Paul McCartney e Ringo Starr hanno lavorato.
Altro punto a favore di “Now and Then” è il registro generale che la rende “moderna” o meglio “senza tempo” con un fugace sguardo al passato che emerge con discrezione in alcuni passaggi del chorus.
Se l’incipit iniziale, con il pianoforte, le chitarre acustiche e la splendida linea vocale di Lennon (perfetta per tutto il pezzo) risultano essere riuscitissime, meno funzionali appaiono gli apporti del basso, della batteria, della chitarra solista e delle orchestrazioni che “banalizzano” e “appesantiscono” la pregevole intuizione di John Lennon.
Terminato l’ascolto, più che “l’ultima canzone dei Beatles”, “Now and Then” appare essere un bel testamento lasciato da Lennon e probabilmente la sua pubblicazione, nella “semplice” versione demo, avrebbe sancito la sua esatta e più giusta “consacrazione”.
Ma si sa, ai The Beatles è permesso (da sempre) tutto e probabilmente la decisione di pubblicare in questa veste e a nome del gruppo “Now and Then” rientra in un’operazione ben più “ampia” del puro valore artistico (questo è ovviamente un mio personale pensiero e tale resta).
Va detto (ma ci tengo a precisare che anche questo è parere dello scrivente) che il fenomeno “Beatles” è stato così tanto rilevante non solo da meritare un nome proprio “Beatlemania” (paragonabile per identità ad un antroponimo) ma da filtrare, attraverso una lente distorta, ogni gesto compiuto dai “Fab Four” alterandone i contenuti e i confini a dismisura, facendo perdere spesso di vista una più giusta e ponderata dimensione; l’operazione che è ruotata attorno a “Now and Then” ne è una prova tangibile.
Ciò accade oggi, come (e soprattutto) è accaduto per il passato.
Se solo si prende, infatti, in considerazione il periodo ritenuto di massima sperimentazione dei The Beatles, inaugurato da “Revolver” del 1966, e lo si paragona con album coevi, ci si rende conto di come i quattro ragazzi di Liverpool non siano stati poi così all’avanguardia come da molti ritenuto; a ciò va aggiunto che nel 1966 i Beatles avevano alle spalle già sei dischi in studio ufficiali e (oggi ancor di più) una disponibilità di mezzi e risorse economiche che gli consentivano di operare senza apparenti limiti e “costrizioni” se non quelle autoimposte.
Se si prende in considerazione “Tomorrow Never Know” (uno degli loro apici “acidi” e comunque posto solo come brano di chiusura di “Revolver”) non si può sottacere che oltreoceano, nel 1966, Frank Zappa e i The Mothers of Invention esordirono con “Freak Out!”, i Beach Boys pubblicavano lo storico “Pet Sounds” (disco spesso “accostato” proprio ai The Beatles per la realizzazione del loro successivo “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”), i The 13th Floor Elevators “The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators”, i Blues Magoos “Psychedelic Lollipop”, Bob Dylan dava alle stampe “Blonde On Blonde” e i The Who il loro “My Generation” (in Europa la pubblicazione è addirittura del dicembre 1965).
Analogo discorso (se non ancora più marcante) lo si può replicare per il celebre “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” del 1967. Se John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr “sperimentavano” con “ammiccante” e “colorato” intento, i Velvet Underground con Nico prima e da soli poi partorivano due (o)scuri capolavori assoluti quali “Velvet Underground & Nico” e “White Light White Heat” (quest’ultimo pubblicato a gennaio del 1968 ma registrato nel 1967), cambiando e segnando in modo indelebile tutto quanto in musica sarebbe avvenuto nei decenni successivi (senza contare che “The Black Angel’s Death Song”, “Venus in Furs” e “Heroin” risalgono agli anni precedenti); anche i The Mothers of Invention, non paghi di quanto espresso con il precedente “Freak Out!”, consegnavano alla storia “Absolutely Free”: uno dei più bei dischi di sempre. Diversamente, quanto operato in termini di strategie di mercato con la “leggendaria” “Carnival of Light” del 1967, testimonia, poi, come i The Beatles abbiano sempre saputo gestire con maestria gli umori e le curiosità del pubblico, senza però mai “esporsi” in modo “estremo”.
Che la narrazione storica, anche quella musicale, sia spesso ingrata, lo certifica il 1968, anno di “The Beatles” (noto come “White Album”); mentre i The Beatles continuavano a scrivere “canzoni”, che sebbene ottime, erano destinate al mercato, dimostrando di aver assimilato quanto il periodo artistico stava esprimendo con lucida “efficacia discografica” senza però mai “osare” oltre (dubbi me li ha sempre riservati anche la sperimentale “Revolution 9” di “White Album” che “sconta” l’influenza di Yōko Ono), vedevano la luce i dischi omonimi d’esordio dei Silver Apples, degli United States Of America, dei The Soft Machine … oltre al monumentale “Electric Ladyland” a firma The Jimi Hendrix Experience; alla fine di quello stesso anno Lennon e Yōko Ono davano alle stampe lo sperimentale “Unfinished Music No.1 – Two Virgins” (dalla celebre e “controversa” copertina), seguito da “Unfinished Music No. 2: Life with the Lions” e “Wedding Album” (entrambi del 1969): riguardo a questo trittico andrebbe aperta un’ampia disamina che però esula dall’oggetto della nostra trattazione non essendo i citati lavori dischi dei The Beatles.
Chiarisco che non è mia intenzione sminuire il “valore” dei The Beatles, negare il loro peso “specifico” sarebbe intellettualmente disonesto, ma con una revisione storica, contestualizzando quanto da loro fatto (ma soprattutto non fatto), in relazione “ai tempi” e ai mezzi di produzione a disposizione, con un’analisi scevra da preconcetti, idolatria e “Beatlemania”, un loro “ridimensionamento” non sarebbe sbagliato sia in merito a quanto pubblicato in passato che al presente con “Now and Then” e alla “produzione” a esso legata.
Di “Now and Then” resta in ogni caso nella testa, con piacevole nostalgia, la toccante voce e il “sentito” ed emozionante cantato di Lennon.
https://www.thebeatles.com/