Per una carriera ormai lunga trent’anni, sembrava impossibile poter sorprendere ancora e fare qualcosa che sembrasse essere un nuovo inizio. PJ Harvey ci è riuscita perfettamente
Unica musicista ad aver ricevuto più volte il Mercury Music Prize del Regno Unito, vincendo prima nel 2001 per Stories From The City, Stories From The Sea e di nuovo nel 2011 per Let England Shake, dopo l’uscita di The Hope Six Demolition Project, nel 2016, che ha raggiunto il primo posto tra gli album in UK, ha scritto composizioni per teatro e cinema; più recentemente per l’acclamata miniserie Bad Sisters di Sharon Horgan. Grazie all’aiuto del poeta scozzese Don Paterson, l’artista ha lavorato a Orlam, opera poetica pubblicata l’anno scorso, la sua seconda dopo The Hollow of the Handdel del 2015, ed ha messo in giro in questi anni ristampe degli album precedenti della Harvey e, in nuove edizioni, delle loro versioni demo, che sono uscite tra il 2020 e il 2022.
Ma, fino ad oggi, nessun vero nuovo disco, da sette anni a questa parte.
Nel corso della sua carriera, Harvey ha sempre fatto in modo che ogni fase del suo percorso la portasse in un luogo nuovo, ma I Inside The Old Year Dying, il nuovo disco di inediti di quest’anno con cui ha rotto il silenzio rispetto alla sua discografia ufficiale, è audace e originale persino per i suoi standard. Le nuove tracce, dice Harvey, “offrono uno spazio per riposarsi, una consolazione, un conforto, un sollievo, che sembra essere necessario per i tempi in cui viviamo“.
La storia del disco risale a sei anni fa, alla fine del tour del suo ultimo album del 2017 e a come Harvey si è sentita subito dopo. “Ero piuttosto smarrita“, racconta. “Non ero davvero sicura di quello che volevo fare: se volevo continuare a scrivere album e a suonare, o se era arrivato il momento di cambiare vita. Mi sono chiesta ‘Ok, ho fatto questo per molto tempo. Voglio continuare per il resto della mia vita a fare la stessa cosa?’.
Quello che sentiva fortemente era che aveva perso il suo legame con la musica stessa, una consapevolezza che la turbava enormemente.
L’artista e regista Steve McQueen, a Chicago, l’ha salvata dal blocco dello scrittore: ha suggerito di smetterla di pensare alla musica come se si trattasse di album, ma di pensare a ciò che ama veramente, le parole, le immagini e la musica, e mettere insieme queste tre cose. Quando Harvey ha iniziato a scrivere nuove canzoni, ha avvertito la sensazione liberatoria di fare musica per sé stessa, e allo stesso tempo, ha spostato la sua ispirazione dai grandi temi di Let England Shake e Hope Six (“guardare fuori, alla guerra, alla politica, al mondo”) verso qualcosa di più intimo e umano.
“Le nuove canzoni”, dice Harvey, “le ho scritte tutte in circa tre settimane“. Ma poi le ha registrate ai Battery Studios nel nord-ovest di Londra, con il suo storico collaboratore e partner creativo John Parish e con Flood e registrate da Rob Kirwan, altro storico collaboratore che aveva già registrato Hope Six e Let England Shake. E da lì è nata la alchimia magica del disco.
“Questo disco ha questo suono grazie al nostro rapporto e al fatto che abbiamo lavorato insieme per così tanti anni“, dice l’artista. “Noi tre ci riuniamo e vogliamo tutti la stessa cosa: sfidare noi stessi e non ripeterci“. Questo approccio ha caratterizzato tutto il loro lavoro, ma questa volta si è trasformato in una sfida esplicita: evitare tutto ciò che ricorda il loro passato musicale.
“Lo studio è stato allestito per suonare dal vivo e questo è tutto ciò che abbiamo fatto“.
Il risultato è che I Inside the Old Year Dying, oltre alla novità di essere un disco spiritual e celtico a tratti, è un disco molto sensoriale, frutto di improvvisazione, performance e idee spontanee, registrate nel momento stesso della loro creazione.
“Penso che l’album parli di ricerca, di esplorazione, l’intensità del primo amore e la ricerca di un significato“, dice Harvey. “Non che ci debba essere per forza un messaggio, ma la sensazione che ricevo dal disco è quella dell’amore, si tinge di tristezza e perdita, ma è amorevole. Credo sia questo che lo fa sentire così accogliente, così aperto“.
Altra grande novità del disco: la voce stessa di PJ e come l’ha rimodulata per farla risuonare più spirituale, meno intensa ma più profonda, traditional, religiosa quasi. “Non credo di aver mai cantato così bene come in questo disco“, dice. “Ancora una volta, credo che questo derivi dall’essere un po’ più vecchia. Ma è anche dovuto alla mia assoluta fiducia in Flood e John e al fatto che ho permesso loro di mettermi in situazioni che non erano confortevoli. Ogni volta che sembrava che stessi cantando con quella che loro chiamano la mia voce da PJ Harvey, veniva posto il veto. Ricordo che con Prayer at the Gate, Flood mi incoraggiava a cantare come se fossi molto più vecchia di quello che sono e ad avere un po’ di disperazione nella mia voce. Non mi riconosco nemmeno. Poi non credo di aver mai cantato in modo così basso e trattenuto come in All Souls. Ero in piedi in studio di registrazione con le cuffie e Flood mi ha detto: ‘No, no, sembri PJ Harvey’”.
E in effetti i fan in questo disco troveranno poco del suo consueto: la voce diversa, come detto, ma anche la musica, molto più traditional, poche chitarre, molto piano, intimità, orchestra in sottofondo, pochi strumenti, ariosità e spiritualità al massimo livello. Una transizione che la rende irriconoscibile, che forse non sarà premiata da tutti gli ascolti, ma che testimonia la volontà di non volersi fermare e irrigidire in un genere.
“Sono in un posto dove non sono mai stata prima“, dice Harvey. “Cosa c’è sopra, cosa c’è sotto, cosa è vecchio, cosa è nuovo, cosa è notte, cosa è giorno? È tutto uguale, in realtà, e ci si può entrare e perdersi. Ed è quello che volevo fare con il disco, con le canzoni, con il suono, con tutto“.
E’un disco che sembra fatto di omelie, di preghiere, con poco ritmo e molta tensione emotiva. ”Penso che l’album parli di ricerca, di esplorazione, l’intensità del primo amore e la ricerca di un significato”, dice Harvey. “Non che ci debba essere per forza un messaggio, ma la sensazione che ricevo dal disco è quella dell’amore, si tinge di tristezza e perdita, ma è amorevole. Credo sia questo che lo fa sentire così accogliente, così aperto”.
Un disco in sostanza che è allo stesso tempo una consacrazione, una svolta, una rinascita, una pausa, un cambiamento, e ancora e soprattutto una conferma. Di quanto PJ Harvey sia l’unica autentica interprete del cantautorato rock femminile d’autore da trent’anni a questa parte.
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autore: Francesco Postiglione