I Queens of the Stone Age hanno diffuso via etichetta Matador il loro atteso ottavo album in studio, In Times New Roman …, e anche se sono ormai lontani dall’essere quella super band che ha visto negli anni suonare con loro gente come Mark Lanegan, Dave Grohl, Matt Cameron e Joey Castillo, sono pur sempre loro, duri e puri, con il loro robot rock (definizione di Josh Homme), sorretto attualmente dalla chitarra e basso di Troy Van Leeuwen, dal sinth e basso di Michael Shuman, dalla batteria di Jon Theodore e la tastiera di Dean Fertita. E poi c’è lui, Josh Homme, anima del gruppo sin dagli esordi di quella No One Knows del 1996 che rimane la loro hit più famosa, una eredità difficile da gestire, una sorta di maledizione se si vuole, perché ogni canzone di ogni loro disco inevitabilmente viene paragonata a quel capolavoro bomba che esordì in piena atmosfera post-grunge.
Quanto è rimasto di quella atmosfera nel nuovo disco? In Times New Roman… è senza dubbio un disco tosto, volutamente ruvido, eppure forse anche l’album più melodico della loro discografia.
Registrato ai Pink Duck (RIP) di Homme, con registrazioni aggiuntive al Shangri-La, e mixato da Mark Rankin con artwork e packaging particolarmente originali, come al solito, disegnati dal collaboratore ormai fedele Boneface, In Times New Roman… non annuncia e non vuole annunciare drastici cambiamenti nello stile della band.
I testi di Joshua Homme sono più pungenti che mai, sempre a raccontare crisi epocali e dissolvenza di valori: “The world’s gonna end in a month or two” canta Homme, e come sempre mentre lo dice sembra che se lo auguri (e come non dargli torto, in fondo?).
Il primo singolo Emotion Sickness, con un video realizzato da Liam Lynch e diffuso sul canale YouTube dei QOTSA, è già la bandiera del disco, pur non essendo forse la track più bella. Senza dubbio infatti è l’attacco più grunge del disco, e la chitarra si fa sentire subito alla maniera tipica della band, così come Homme entra sul riff nel suo solito modo. Non c’era singolo migliore per lanciare il disco, perché Emotion Sickness è nata per diffondere il verbo musicale dei QOTSA, ma Obscenery e Paper Machete, con cui il disco inizia, sono forse canzoni più significative, senza dubbio ancora più dure, anche se perfettamente nello stesso stile, che è poi lo stile assolutamente tipico dei QOTSA (basti pensare ai ritornelli in falsetto che si trovano in tutte e tre le canzoni).
Negative Space, con un attacco tipico della band grazie alla batteria di Theodore, introduce poi anche la visione nichilista dei testi di Homme: “Ci deve pur essere qualche modo per tornare sulla Terra, sto andando alla deriva mentre il mondo gira, non torneremo mai da dove eravamo, affrontando l’oblio, non ci sono parole”.
Il disco già dice tutto in queste quattro canzoni: se qualcuno si aspettava svolte musicali, beh, i Queen of the Stone Age sono tutti qui, e sono qui a ricordarci che questa è la loro musica, dura, sparata in faccia, più dura di un garage metal perché più dark anche se meno rumorosa e cattiva.
Time & Place, Made to Parade e Straight Jacket Fitting, poi, impreziosiscono ancora di più il disco perché il ritmo di base è quello che ha cristallizzato per sempre i QOTSA in un’immagine sonora, quella di No One Knows, a cui entrambe le canzoni si richiamano proprio per quell’incedere di batteria quasi militare (specie Straight Jacket Fitting) che tutti hanno imparato a identificare con la band.
Non stiamo però dicendo che il disco non fa un passo dal 1996: al contrario, suona fresco e nuovo, anche se non innovativo nello stile. In sostanza, è un disco rigorosamente nella tradizione, e probabilmente solo i QOTSA e i loro cugini Foo Fighters sono rimasti a suonare rigidamente fedeli al loro credo iniziale, senza altri strumenti che non siano quelli basilari del rock, ovvero chitarre basso e batteria (anche se in questo disco la tastiera impreziosisce tantissimo molti ritornelli, assieme alla lead guitar). E proprio quando l’ottava creazione della band arriva a un passo dall’essere troppo monotematica musicalmente, ecco arrivare due fantastiche sorprese: anzitutto e soprattutto Sicily, un pezzo del tutto fuori schema, intanto perché entra con il basso e non con il consueto riff di chitarra, e il falsetto arriva subito e non nel ritornello.
Sicily continua poi a incedere, suadente, per un paio di minuti come un pezzo dei Talking Heads, per poi esplodere in un riff di chitarra molto oscuro dal sapore arabeggiante, che peraltro a metà canzone si interrompe per cedere a una sorta di banjo iper-elettrizzato e a tastiere ancora più arabesche: in sostanza, un pezzo irresistibile e diverso, che interrompe la sequenza ordinaria di strofa e ritornello, un pezzo di uno spessore fin qui inedito per la band, senza dubbio il capolavoro del disco. Ancora e forse più esplicitamente ispirati ai Talking Heads, ma stavolta soprattutto nel modo di cantare di Homme, li scopriamo in Carnavoyeur, la canzone più melodica, solare e “calma” del disco. Fra loro, il robot rock di What the Peephole Say ribadisce nella maniera più drastica lo stile QOTSA ed è in fondo, con le già citate Emotion Sickness e Straight Jacket Fitting, che chiudono il disco, la doverosa chiusura di un lavoro così rigorosamente fedele alla tradizione cominciata 8 capolavori fa, a cui nessun fan probabilmente vuole affatto rinunciare. E senz’altro a ragione.
https://qotsa.com/
https://www.facebook.com/QOTSA
https://www.instagram.com/queensofthestoneage/
autore: Francesco Postiglione