I The National sono sicuramente la cosa più attuale esistente oggi per chi ammira la musica tradizionale anni ‘80 stile R.E.M., U2 prima maniera, Waterboys, e simili, e in parte anche per certo sound degli anni 90 (un esempio su tutti: Automatic for the People dei R.E.M, album che gli americanissimi National devono conoscere bene e si sente).
Stilisticamente, si potrebbe dire che non cavalcano le correnti contemporanee, e insomma non sono una rock band attuale nel senso che i loro riferimenti musicali sono tutti quanti rivolti al passato, ma questo non vuol dire che la loro musica non sia fresca e viva, al contrario essa è una musica freschissima, vigorosa, potente nell’arrivare immediatamente al cuore con melodie impressioniste e facilissime.
Va detto che il novanta per cento del merito di tutto ciò dipende dalla voce di Matt Beringer, vero caso unico del rock contemporaneo, per via di quel suo tono cavernoso ma contemporaneamente suadente, seduttivo, ipnotico, che da il meglio di sé, come i The National hanno scoperto a metà carriera, nel 2017 col capolavoro Sleep Well Beast (album vincitore di un Grammy, con il quale i The National hanno raggiunto la #1 in Regno Unito, Irlanda, Portogallo e Canada e hanno raggiunto la posizione più alta di sempre nelle classifiche di undici paesi, tra cui la #2 nella US Billboard Top 200), nei pezzi lenti e con poca chitarra.
Il contraltare di questa valorizzazione della voce e dell’introduzione di drum machine e di un po’ di elettronica (sempre dalla svolta di Sleep Well Beast) , è che la musica dei The National non è più la musica di quegli esordi vagamente punk con pezzi dove si sentivano i The National anche arrabbiati e con un forte presenza di batteria e chitarra, come Mister November o Abel, o Lit Up, tutti provenienti da quel trittico di dischi incredibili (Alligator, The Boxer, High Violet) che li hanno resi noti al grande pubblico agli inizi degli anni 2000. A parte le splendide Eucapyptus, e Grease in Your Hair, i più vicini ai pezzi indie degli esordi, questo nuovo disco, First Two Pages of Frankenstein, non ha variazioni rispetto alla scelta di un ritmo medio-basso e molte ballads.
First Two Pages of Frankenstein è perciò decisamente continuativo rispetto al piuttosto lento I Am Easy to Find del 2019: prodotto negli studi di Long Pond a New York, il disco vede prevalentemente la voce di Matt a dominare su tutto: sul pianoforte, sulle chitarre sulle drum machine, su qualunque strumento le canzoni mettono in piedi (e ne sono tanti, visto che ha partecipato all’esecuzione a tratti anche la London Contemporary Orchestra)
Prosegue anche la ricerca di duetti con il mondo vocale femminile, in cui Matt è particolarmente dotato: abbiamo qui canzoni con Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers, e persino Taylor Swift (di cui Aaron Dressner ha prodotto gli ultimi due dischi) che idealmente proseguono quanto già positivamente avviato nel disco precedente (con le voci di Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle o Kate Stables dei This Is The Kit) e che anzi costituivano la novità del disco precedente, qui non riprodotta fino in fondo (sono solo quattro le canzoni con duetti) ma certamente mantenuta.
Ed è proprio il duetto con Sufjan Stevens a introdurre il disco, in una canzone con 4 note di piano, Once Upon A Poolside, una ballata romantica decisamente “dominata” dalla voce di Matt, asciuttissima ma proprio per questo tra i migliori pezzi del disco.
Ballads romantiche e lente sono anche The Alcott con Taylor Swift e Your Mind is not Your Friend con Phoebe Bridgers. This isn’t Helping, sempre con Bridgers, invece ha un ritmo lievemente più sostenuto, ed è intensissima e cupa: un altro pezzo molto riuscito.
A tenere in piedi il ritmo del disco ci pensa il rock di Eucapyptus, ma anche la elettronica Tropic Morning News, primo singolo del disco, scritta in collaborazione con Carin, moglie di Matt, cosa che ci porta a dire che metà del disco vede in qualche modo collaborazioni al femminile per una band tutta al maschile fatta da due coppie di fratelli (i Dressner e i Devendorf) e Beringer.
Sono ballate anche Send for Me (a conclusione del disco, decisamente noiosa) e la toccante Alien e la acustica Ice Machines, per cui si può dire che il disco si colloca, pienamente, nella seconda parte della discografia dei The National (che coincide con i dischi prodotti nel secondo decennio del nuovo millennio in pratica) ovvero dopo la svolta del sound di Trouble Will Find Me, album da cui i The National hanno messo tra parentesi il rock dinamico per dedicarsi a ciò che li ha resi poi caratteristici, ovvero la musica stile colonna sonora del primo True Detective, qualcosa di profondamente americano pur senza essere country, qualcosa di emozionante e primario, qualcosa di intensissimo anche se semplice nelle melodie e nella narrazione musicale.
La forse unica novità di questo disco dunque è la gestazione, molto interrotta, da quando i The National si sono presi una pausa interrompendo per il covid il tour di I Am Easy to Find, Matt Beringer ha avviato la sua carriera solista con l’acclamato Serpentine Prison, e Dressner si è dedicato alla produzione di Swift.
Nel mentre, vanno annoverati la depressione di Beringer e il blocco dello scrittore (a cui allude il titolo, perché pare che proprio grazie all’aver preso Frankenstein dallo scaffale Matt si sia sbloccato, e comunque le prime due pagine raccontano proprio dell’arrivo al Polo della spedizione di Walton, dunque il traguardo agognato e finalmente raggiunto), di cui lui stesso racconta a proposito della (iniziale non) nascita di questo disco: “ho attraversato una fase molto buia in cui non riuscivo a trovare testi o melodie e quel periodo è durato più di un anno. Anche se siamo sempre stati ansiosi e abbiamo litigato spesso durante la lavorazione di un disco, questa è stata la prima volta in cui ci è sembrato che le cose fossero davvero arrivate alla fine”.
Ne sono usciti invece con un disco bello, senza dubbio, compatto, limpido e decisamente in stile The National ultima versione, ma forse col difetto, proprio per questo, di non aprire a nuovi orizzonti, di non avere invenzioni o nuove sperimentazioni, di lasciare l’ascoltatore con la sensazione che questi pezzi potresti collocarli anche nei tre dischi precedenti.
C’è forse bisogno per il futuro di una nuova svolta, come ai tempi di Sleep Well Beast, ma potrebbe bastare anche il ritorno all’indie iniziale e da frontiera cowboy dei dischi degli esordi.
I The National arrivati al nono disco sono insomma a un varco, ma per il momento il fan ha ancora di che poter godere, perché il disco è per fortuna ancora uno di quelli che toccano corde emotive alte.
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autore: Francesco Postiglione