The Tallest Man On Earth – il progetto del musicista svedese Kristian Matsson – ha reso da poco alle stampe Henry St., primo album dopo 4 anni in uscita su ANTI, se si eccettua il disco di cover Too late for Edelweiss, sempre per ANTI, dell’anno scorso.
Dopo aver trascorso gran parte dell’ultimo decennio in tournée in tutto il mondo come The Tallest Man On Earth, Matsson aveva lasciato nel 2020 New York City ed è tornato in pieno Covid alla sua fattoria in Svezia. Verso la fine del 2021 ha ricominciato ad andare in tournée, e l’ispirazione è tornata. “Quando sono in movimento, posso focalizzarmi sui miei istinti creativi. Quando ho potuto finalmente tornare in tournée, ho ricominciato a scrivere come un pazzo”. Prima il disco di cover, pronte sin dagli esordi del musicista nel 2006, poi ora Henry St. sono il risultato di questa scrittura ossessiva, ma pienamente solare, un album che vede Matsson esplorare il proprio ostinato ottimismo su “come essere una persona in questo mondo”.
Dopo Dark Bird Is A Home, del 2015, il suo album più personale e onirico, e dopo I Love You, It’s a Fever Dream del 2019, il suo sesto album Henry St. anzitutto si qualifica per essere il primo disco in cui incide con una band al completo. Con la produzione di Nick Sanborn (già produttore dei Sylvan Esso) i musicisti che si sono alternati a collaborare con il polistrumentista One Self Man Matsson sono Ryan Gustafson (chitarra e ukulele), TJ Maiani (batteria), CJ Camerieri (fiati e corno francese), Phil Cook (piano, organo), Rob Moose (violini) e Adam Schatz (sassofono), e hanno dato vita a una vera e propria orchestra per il folk-rock originalissimo dell’artista svedese. Il suo immenso ringraziamento è in queste parole: “Hanno riaperto e rimescolato tutto, e compreso quello che le canzoni necessitavano: suoni che non avrei mai pensato di poter creare da solo. Abbiamo registrato tanto in studio, suonando, divertendoci, e veramente rimanendo aperti l’uno con l’altro”.
Il risultato di queste emozioni collettive si nota sin dagli esordi con Bless You, ancora molto acustica nella sua base, come pure il singolo Every Little Heart, che, racconta Matsson, “è venuto fuori da una sensazione di assenza di paura, una confidenza nel fare musica dopo due anni di quasi silenzio. Naturalmente avevo ancora piccoli demoni dentro di me. Ho scritto alcuni passaggi chiave nella canzone che mi erano venuti naturali, ma ero preoccupato di come suonassero agli altri. Quando TJ Maiani li ha ascoltati, si è piombato sulla batteria e ha creato un ritmo che all’inizio mi ha sorpreso, ma era uscito davvero in forma naturale da lui. E funzionava perfettamente per la canzone”. Ed è davvero così perché il ritmo di batteria è ciò che caratterizza questa canzone e la rende impossibile da classificare nel consueto stile folk. Il video poi, diretto da Jeroen Dankers su una pellicola Kodak 16mm, “racconta il conflitto con il bambino interiore che talvolta vuoi far uscire ma non è sempre semplice”.
Più convenzionale, melodica, facile, ma assolutamente bellissima soprattutto per l’emotività della linea di canto, in cui Kristian si supera, è Looking for Love, così come vagamente country, ma con un tocco di malinconia e un paio di riff elettrici che ricordano So Far Away dei suoi amati Dire Straits, è Slowly Rivers Turn, in cui di nuovo nel ritornello Tallest Man emoziona con i suoi acuti. Decisamente country, con il suo banjo introduttivo, è invece Major League, che riesce ad essere addolcita dalla voce ancora una volta ispiratissima di Kristian, e dai riff in acustico, senza che la canzone, pur senza batteria, perda il suo ritmo trascinante.
Un disco fin qui bellissimo e molto acustico svolta verso il soul-jazz con il monologo in pianoforte e voce di Henry St. per poi svoltare ancora nel dolce pop semi-elettrico di In Your Garden Still,
La ballad elettrica in stile traditional (ammesso che Matsson riesca a fare qualcosa di semplicemente tradizionale quando si cimenta con generi classici) Goodbye Goodbye Lonesome impreziosisce ancora questo disco, ed è piazzata verso la fine proprio come commiato alla solitudine forzata che come detto è stata la premessa e la matrice iniziale di questo disco.
Un altro pezzo traditional, che segna il ritorno a ukulele e suoni puramente acustici, è proprio l’omaggio al nostro paese con Italy. E si capisce che l’anima di questo disco sono proprio i pezzi puramente acustici, già sua specialità, intorno ai quali Matsson riesce a costruire con l’ausilio della band riff e sound completamente rinnovati rispetto al suo stile.
Ma il capolavoro, di un disco già sin qui a dir poco emozionante, arriva con New Religion, dove Matsson si supera rispetto alle altre canzoni e forse anche rispetto agli altri dischi da lui realizzati, giungendo a toni epici. E’ qui peraltro che la band si esalta, perché partecipano proprio tutti a questa splendida composizione, che è in fondo una festa di chitarre, violini, piano, sax, batteria e tutto quello che la creatività di Matsson e la sua band è riuscito a metterci, senza una sola sbavatura. A non dire dei toni da brivido a cui arriva la stupenda voce di Kristian. Foothills è infine il dovuto congedo acustico solo voce e chitarra, in tono dimesso.
Che Henry St. sia nato e concepito in un clima di festa e ritorno alla solarità lo confida, in conclusione, proprio l’artista, schietto intimo e sincero come la sua musica: “Henry St. è il più giocoso e più personale album che io abbia fatto, perché riprende molti diversi rumori che sono nella mia testa. Quando pensi troppo alle cose, vai troppo lontano dalle idee originali. E solo Dio sa che penso troppo quando sono da solo. Ma il tempo in isolamento mi ha dato anche una nuova pace interiore. Stare lontano dalla musica mi ha fatto capire che fare musica è quello che voglio fare per il resto della mia vita e sono grato per questo”.
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autore: Francesco Postiglione
Henry St. Tracklist
1. Bless You
2. Looking for Love
3. Every Little Heart
4. Slowly Rivers Turn
5. Major League
6. Henry Street
7. In Your Garden Still
8. Goodbye (Goodbye Lonesome)
9. Italy
10. New Religion
11. Foothills