I Kooks vogliono fuggire a tutti i costi dall’etichetta di pilastri dell’indie-pop britannico. Il loro sesto disco, 10 Tracks to Echo in the Dark, uscito il 22 luglio su Lonely Cat/AWAL Recordings, è un palese tentativo di darsi una nuova veste, siglando quell’evoluzione del loro sound, arricchito con toni d’elettronica, che già era cominciata con Let’s go Sunshine, del 2018, (e che su queste pagine avevamo evidenziato, qui), vero e proprio disco della svolta dopo Konk, Listen e Junk of the Heart, che li avevano portati al successo internazionale.
La storia di questo nuovo disco, dal sound così particolare, che recupera groove e basi dal mondo delle discoteche anni ’70, nasce in realtà proprio dalle date terminali del tour di Let’s Go Sunshine, che ha portato Luke Pritchard (voce e chitarra), Hugh Harris (chitarra), Pete Denton (basso) e Alexis Nunez (che ha sostituto Chris Prendergast alla batteria), in tutta Europa e Gran Bretagna. Dopo quel tour, Luke voleva prendersi un periodo di riposo, ma si è ritrovato subito in studio.
“Ho cominciato ad andare a Berlino tre-quattro volte a settimana. Sono rimasto molto colpito negativamente dalla Brexit e volevo prendere una qualche forma di posizione creando un disco molto europeo, noi siamo una band europea, praticamente viviamo sempre fuori e amiamo l’Europa, perciò volevamo mantenere questo legame”.
Ovviamente, Berlino è stata come già in passato per tanti artisti, una ispirazione importante per il disco: “E’ una città libera, non consumata dalla commercialità. Cercavo qualcosa di grezzo, di minimale, spesso non sono le persone a ispirarti ma anche solo il luogo”.
A questo punto, come già accaduto per tanti artisti negli ultimi anni, il covid ci ha messo le grinfie: mentre stava registrando la prima sessione di canzoni con Tobias Kuhn, il produttore, è stato costretto a rientrare in Gran Bretagna. Lì, con gli altri membri della band, ha finito le canzoni via Zoom fino a che Kuhn non è riuscito a volare a Londra per completare il tutto.
Bisogna dire che il disco risente di questa composizione “interrotta”: nell’ottica della ricerca di un nuovo sound, che li porta lontani dall’indie-pop, il primo singolo e la canzone pilota Connection e ancora di più Cold Heart e Jesse James si mostrano come una unica narrazione sonora, fatta di groove anni ’70 a pieno ritmo, ma anche di loop elettronici. Connection in particolare sembra una canzone dei Prefab Sprout anni ’80, piena di romanticismo e malinconia, dove la tastiera prevale decisamente sulla chitarra, qui solo ritmica. La stessa chitarra ritmica sincopata e tipicamente seventies invece detta un irresistibile groove in Cold Heart, sin dalle prime trascinanti note. Torna invece l’elettronica, il synth, e con esso un po’ di anni’80, in Jesse James, ma nel complesso, come dicevamo, le tre canzoni costituiscono un trittico compatto a cui Pritchard e compagni, senza dubbio, affidano il sound portante del nuovo disco.
Cambio di passo con Closer, la canzone che vuole essere forse più impegnativa del disco, sia musicalmente che per testi. Closer risente dell’esperienza di essere diventato marito e padre per la prima volta, ma anche del periodo covid (“Non fummo mai più così vicini di come lo fummo allora”). Purtroppo, una interessante dinamica sulla strofa si disperde in un ritornello che musicalmente è un po’ troppo banale.
Sailing on a Dream cerca il groove anni ’70 con il giro di basso, mentre la chitarra ritmica torna protagonista in Beautiful World, nel disegnare un ritmo allegro, luminoso e solare, molto estivo e vagamente reggae-pop, specchio del periodo felice a livello personale che il frontman sta attraversando.
Dice Pritchard di questo periodo: “spero davvero che questo senso di pace mi attraversi, voglio davvero che questo periodo della mia vita sia divertente, ma è anche un momento di riflessione in tempo reale sul prima e post COVID. Durante la pandemia ho avuto molto tempo per guardare dietro ai nostri dischi e mi sono sentito orgoglioso e fortunato. Questo nuovo disco è un vero grazie ai nostri fan per essere così uniti a noi da tanto tempo”.
Una canzone forse più vicina ai vecchi standard indie dei Kooks è Modern Days: riconosciamo nella chitarra di Harris i soliti riff delle hits di successo dei Kooks, anche se pure in questa canzone il ritmo è aggiornato al nuovo sound.
Ma i Kooks dei grandi successi li ritroviamo appieno in Oasis: qui il riff di chitarra è tipicamente Kooks, così anche come il delinearsi del cantato fra strofa e refrain. La band però non riesce a raggiungere qui, né nella successiva 25 (ancora con un basso da anni ’70) quella facilità di suono che si imprimeva immediatamente nell’ascoltatore e che ha fatto il successo di pezzi come Naive o You Don’t love me o Sofa Song. Del resto, i Kooks sono diventati grandi: basta guardare i video dei pezzi di allora (2004-2008) per notare il cambiamento anche fisico, cambiamento che si riflette sul loro modo di suonare ma soprattutto sulla loro ricerca artistica dal 2018 in avanti.
Bisogna dare atto a questi ragazzi di aver scelto di non fossilizzarsi su un unico e solo tipico sound caratterizzante, che evidentemente stava a loro troppo stretto, e questo fa loro onore.
Di certo, però, i dischi attuali, compreso quest’ultimo, sono ancora alla ricerca di una identità forte. 10 Tracks to Echo in the Dark è da questo punto di vista un disco troppo leggero, troppo veloce (canzoni mai oltre i tre-quattro minuti) e privo di costruzioni sonore particolarmente interessanti che colpiscano l’ascoltatore. E’ un risultato voluto, perché qui i Kooks sembrano cercare a ogni passo leggerezza ed estate, ma basta sentire Sway per cogliere la differenza, anche dal punto di vista della ricchezza strumentale, o dell’estensione vocale e della varietà delle chitarre usate.
Rari nel nuovo disco sono riff e assoli, molta chitarra sincopata, insomma, i Kooks cercano di farci ballare al sole estivo, ma manca del tutto la profondità e lo spessore (del quale certo non erano campioni nemmeno in precedenza) e quel sapore così puramente indie e brit-pop che graffiava nei primi dischi.
autore: Francesco Postiglione