Gli Alt-J per molti aspetti sono un unicum nella scena rock attuale: in soli quattro dischi, hanno già conquistato fama mondiale, di critica e pubblico, e sono tra le band più influenti del panorama di oggi. Ma soprattutto lo sono anche grazie ad aver riportato in auge il progressive, a cui ammiccano in ogni loro disco. Ammiccano, appunto: perché poi ogni loro album è una storia a sé, quanto a ispirazione, sottogenere musicale, influenze sonore, ed anche questo li rende unici. Il loro esordio, An Awesome Wave, che già li consacrò ovunque (nel 2012, vinsero il British Mercury Prize. furono candidati a tre Brit Awards e il disco fu premiato come album dell’anno alla BBC Radio 6 Music e agli The Ivor Novello Awards), era nel segno soprattutto dell’indie sperimentale. This is All Yours e Relaxer, i successivi, sperimentarono di tutto, e fondamentalmente è impossibile classificarli se non nella macro etichetta di rock alternativo.
Ora, questo The Dream sembra essere la consacrazione del loro sound e della loro capacità di sperimentare: se fino a qui ogni disco era una storia a sé, in The Dream persino ogni canzone è una storia (musicale) a sé. Un viaggio infinito, psichedelico naturalmente (come il titolo del disco già suggerisce) e molto felice dal punto di vista della resa sonora, non senza qualche esagerazione e virtuosismo di troppo. Un viaggio che comunque reca traccia e parte dal precedente disco, Relaxer, dove già si trovavano componimenti più riflessivi, più lenti, ballate acustiche o semi-acustiche, o pezzi complessi, dallo sfondo epico. Bane, ha appunto questo intro epico, per circa un minuto e mezzo, appoggiato agli arpeggi di Joe alla chitarra, ma poi svolta velocemente nel progressive spinto, con cambi di ritmo e melodia. U&ME invece ha un andamento assolutamente tradizionale, molto beatlesiano, ma è naturalmente sempre un pezzo nel segno Alt-J: il che vuol dire elettronica contaminata al folk, sebbene qui ci siano cori e linee vocali piuttosto “classiche. Hard Drive Gold è invece un soul/hip hop elettrico, ma la loro firma è presente nell’assolo di organo, molto alla Doors. Happier when you’re gone è il primo pezzo del disco propriamente psichedelico, anzi addirittura dream pop, ed è una delle cose migliori, splendido soprattutto nel finale con i cori ecoizzati. The Actor è sulla stessa scia del precedente, ma senza le stesse rese, tuttavia gradevolissimo. Una sferzata al disco la dà poi Get Better, completamente acustica, e folk fino all’osso per tutto il pezzo. Probabilmente si candida per essere la canzone più tradizionale mai scritta dagli Alt-J, ed è una novità piacevole, anche se pur sempre un intermezzo. Sembra così anche Chicago, ma dopo un minuto interviene un loop di basso, e il ritmo diventa dance: così anche Losing My Mind, mini-capolavoro del disco, che è ancora più strutturata in forma trip hop: gli Editors elettronici sembrano echeggiati in questi due pezzi così particolari, e riusciti, anche per lo sperimentalismo esasperato di Thom Green e compagni. Losing My Mind è da ascoltare fino alla fine, perché il crescendo sonoro è appunto nei minuti finali. Philadelphia invece è un’incursione nell’operistico: francamente eccessiva, pretenziosa e fuori tono, con i cori lirici e i suoni orchestrali seguiti poi dai violini.
Se gli Alt-J vogliono dirci che sanno fare proprio di tutto, ok, l’abbiamo capito, ma non è necessario esagerare. Walk a mile torna sulla retta via del rock, ed è un blues soffuso, dolce e amaro, gradevolissimo nelle evoluzioni di chitarra finali soprattutto. E’ lo stile più tipico degli Alt-J (ammesso che abbiano un solo stile) e diventa una canzone riconoscibilissima. Delta è un canto celtico, di puro intermezzo, mentre Powders è un folk-soul un po’ autoreferenziale, ma piacevolissimo, che sta a giusta conclusione perché lascia un messaggio di speranza, melodia, purezza, nei cori finali, dove la voce di Joe dà il meglio del disco.
L’album, in definitiva, è il trionfo dell’eclettismo musicale che tanto caratterizza la band di Leeds, ed è uno dei loro dischi dove questo eclettismo trova la sua compiutezza più raffinata. Solare e luminoso in quasi tutte le sue soluzioni musicali, ha testi però spesso non facili e non leggeri.
“La fine dell’esistenza ha sempre fatto parte del nostro immaginario – ha raccontato Gus Unger-Hamilton – ma in questo disco Joe (Newman, ndr) ha aumentato le metafore ed è stato più profondo. Da ragazzo ti senti invincibile, quando cresci e inizi a perdere le persone che hai accanto, cambia tutto. Credo che le riflessioni sulla morte siano dentro ogni essere umano”.
The Dream, ipnotico, psichedelico e etereo addirittura in alcuni punti, dice insomma in musica il contrario di ciò che dicono i testi. Resta che il messaggio puramente musicale è forse il più perfezionato ed evoluto che gli Alt-J abbiano fin qui confezionato, quasi una sintesi e distillazione di quanto di buono abbiano prodotto i primi tre dischi, ed è di altissimo livello in assoluto, e per una band al solo quarto disco questo è veramente un risultato incredibile. Degno della fama che hanno acquisito in questi anni.
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autore: Francesco Postiglione