Capostipite di un genere, il nu metal, la band di Jonathan Davis, e dei chitarristi James “Munky” Shaffer, e del figliol prodigo Brian “Head” Welch, con Reginald “Fieldy” Arvizu al basso, e il batterista Ray Luzier, ha venduto in carriera 40 milioni di dischi dall’epoca del primo disco omonimo del 1994 e ha conquistato due Grammy.
Nel 2022, al quattordicesimo album, Requiem, i Korn possono permettersi, non dovendo più dimostrare nulla a nessuno, di variare (nemmeno troppo poi) sul loro stile che li ha resi famosi in tutto il mondo.
Per lanciare Requiem hanno scelto di registrare il video del singolo Start The Healing con il regista Tim Saccenti (Flying Lotus, Run The Jewels, Depeche Mode), il quale a proposito del video ha dichiarato: “La nostra idea per questo video era quella di mutare quell’aspetto del DNA dei Korn che li rende così stimolanti, il loro mix di potenza grezza ed emozioni umane. Volevo trasportare lo spettatore in un viaggio emotivo, come fa la canzone, una morte e una rinascita viscerali e catartiche che, si spera, aiutino l’ascoltatore in qualunque siano le sue lotte personali. Collaborando con l’artista 3-D Anthony Ciannamea abbiamo attinto alla mitologia dei Korn ed esplorato le loro fonti di luce e oscurità per creare un incubo horror surreale”.
Concepito lontano dai palchi per via del Covid, Requiem ha potuto respirare aria di tranquillità e lentezza, che secondo la band ha giovato al disco, il quale si avvale anche di registrazioni analogiche e rimasterizzazioni, in genere lontane dallo stile ruvido “a presa diretta” dei Korn, ma che in questo caso ha dato ad alcune canzoni, compreso Start the Healing ma anche Forgotten e Disconnect, più spessore e profondità. Forgotten e Let the Dark do the Rest, in particolare, sono quelle che conservano il maggior spessore “horror”, entrambe specie nell’intro.
Lost in the Grandeur, a quasi metà disco, rappresenta una piacevole variazione. Davis rinuncia a introdurre la canzone con la voce e lascia più spazio all’ingresso degli strumenti, in particolare di una chitarra graffiante che, servita da una batteria prorompente, crea un ritmo dissonante che rende la canzone assolutamente particolare, fino al ritornello.
Disconnect è invece un pezzo classico per i Korn: intro di chitarra, intervento di tutti gli strumenti, e poi assolo di voce su riff “classicamente inquietante” di chitarra.
Fino a questo momento ineccepibile e bellissimo, l’album perde un po’ di smalto e ritmo con Hopeless and Beaten, recupera dinamica con Penance to Sorrow, e poi si avvia al finale con una canzone di spessore “medio” come My Confession, per trionfare poi con un pezzo da esordi dei Korn, ovvero un devastante metal rap come Worst is on its Way.
Complessivamente, un disco fra i più classici e coerenti del loro repertorio, ma dopo qualche tentennamento di inizio millennio questa è già una grande notizia. Aggiungeteci una formazione ormai consolidata col rientro di Head, e la voce mai così melodica, quasi suadente, di Davis quando non canta in growl, e avrete un disco che sorprende per quanto sia bello, nel suo genere, quasi trent’anni dopo l’esordio di un movimento, di cui i Korn erano alla guida, che certamente ha spento le sue fiamme di rabbia iniziali. Questo disco, in effetti, è più scaturito dalla posatezza e dal lavoro di studio post produzione con Chris Collier, che non dalla rabbia prorompente, ma non perde in dinamica e aggressività, mantiene al contrario tutte le promesse del nu metal anche se il messaggio, condotto soprattutto dal singolo Start the Healing (dopo le sofferenze personali di Davis raccontate in The Nothing), è anche di luce, di guarigione, di speranza.
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autore: Francesco Postiglione