Gli El Santo hanno dato alle stampe “Il giorno dopo il lieto fine” (Seltz Recordz/Viceversa Records).
In occasione dell’uscita del disco, si è colta l’occasione per porre alcune domande a Giorgio Scorza (voce del gruppo e autore dei tesi); con lui Daniele Mantegazza: voce, chitarre e autore delle musiche; Riccardo Spina: chitarre, mellotron, minimoog, electric piano; Lorenzo Borroni: batteria e percussioni; Lorenzo Carnaghi: basso; Stefano Gulani: fisarmonica, concertina.
Quale è stata la genesi che ha portato alla registrazione di “Il giorno dopo il lieto fine” e che differenze ci sono rispetto agli esordi discografici di “Il topo che stava nel mio muro”?
‘Il disco è nato appena prima della pandemia: ormai un’unità di misura dei nostri tempi e del nostro tempo privato, in ogni senso. Era, ed è, un “qui e ora” con se stessi, in un istante che fissava un punto nel nostro vissuto fatto di frenesia e viaggio. Era la ricerca della capanna. Se penso che quello che era un bisogno di ritrovare me stesso sarebbe diventato di lì a poco per tutti sinonimo di isolamento e limitazione … il disco acquista automaticamente altre sfumature e un’aria di presagio che un po’ mi fa rabbrividire.I brani, infatti, sono nati in treno, aereo, taxi, o in qualche sala di qualche hotel. In fuga, fuori dalla gabbia, giù dal ventre, insomma. Se “Il Topo che stava nel mio muro” era una nuova pagina grezza e spontanea che si apriva dopo l’esperienza de La Stasi, questo disco è il bilancio di una vita, è il coraggio anche di parlare di ricordi; non solo il grido e la celebrazione rabbiosa dell’oggi. È il richiamo all’interiore. Ha tante atmosfere liquide, lisergiche, tocca tanto del nostro trascorso musicale di artisti e ascoltatori, spaziando più liberamente dal pop psichedelico ad atmosfere rock desertiche e frastagliate.O almeno così suona a noi!’
“Il Giorno dopo il lieto fine” è un titolo che lascia aperta una porta verso contenuti musicali e lirici. Quanto è per voi importate il messaggio dei testi in rapporto alla musica suonata?
‘I testi, di cui mi occupo, sono una parte inevitabile del percorso di condivisione che per noi è lo scrivere canzoni. Io e Daniele (chitarrista e autore delle musiche) amiamo il cinema e ci piace che parole e suoni raccontino sempre qualcosa di visivo, evocativo, come sequenze che riescano a lasciare ampio spazio all’immaginazione. Anche il titolo è una frase di un brano in cui appunto mi chiedo cosa si celi dietro il bel finale delle fiabe e di quello che ci rassicura. Un pensiero scomodo anche da accogliere ma in cui consiste forse la vita vera. Credevamo che questo messaggio rappresentasse il senso profondo del disco. In cui brani come “Skin”, “La voce che ho in corpo” o “18 agosto” dicono cose molto precise di me. Per la prima volta.’
La vostra musica sembra fondare le radici nella corrente “alternativa” dei primi anni novanta e la vostra nascita, come “El Santo”, è datata al 2011. Quali vie ha percorso nell’ultimo quarto di secolo e quali sta percorrendo tuttora la musica “alternativa” in Italia e all’estero, soprattutto con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e piattaforme on line?
‘Ahaha è che siamo vecchietti ormai! Scherzi a parte questa domanda è enorme e inaffrontabile per me, sono sincero…Posso dire che credo che la musica evolva spontaneamente e seguendo pulsioni spesso anticipatorie di quello che il mondo ci racconterà. È sempre stato così e penso che sia tutt’ora un dato di fatto che la arti arrivino con un salto lirico un po’ prima a ciò che accadrà in seguito. Ad esempio, quello che è un ritorno del mercato all’attenzione per atmosfere grunge-rock è per l’appunto sia un’esplorazione marketing di fette di pubblico da stanare, sia una sorta di rigurgito spontaneo di una fisicità-non-virtuale da parte di molti artisti. Del resto, anche l’esplosione di trap e urban è stato un flusso che naturalmente sgorgava dalla generazione Z, e in parte ne è un manifesto, ma quasi subito è diventato il tentativo plastico di creare un trend di vendita fatto di pose e cliché.Forse in passato anche il rock ha percorso questo viale lastricato di noia e copia-incolla e ha avuto bisogno di ritrovare urgenza e non solo attitudine e distorsori.E in Italia, il rock – soprattutto a livello di band – ha fatto sempre fatica ad avere una propria area protetta ma dialogante col resto del mondo musicale. E anche con il mainstream ha un rapporto sussultorio e spesso conflittuale. Ma ha una grande forza intrinseca: è fisico, valvolare, ha a che fare con la prosecuzione fisica di sé nello spazio. Fa rumore, anche se non vuole. E per questo resta viscerale, indomabile e di fatto destinato continuamente a rigenerarsi.Non so che cosa ho detto, ma credo di non riuscire a far meglio. Quantomeno non ho usato la parola Maneskin. Azz!’
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autore: Marco Sica