Basterebbero due semplici aneddoti per provare a capire il fenomeno Mumford&Sons ed entrare nel loro universo musicale. Il primo, è l’aver ricevuto un po’ di tempo fa la “benedizione” da quel simpaticone di Liam Gallagher quando, definendoli “un branco di fottuti amish”, li ha inconsapevolmente consacrati ad una fama ancora maggiore.
L’altro invece è il suggerimento abbinato al termine Mumford che compare in cima alla barra delle ricerche di Google : sold-out. E allora, per non contraddire il “logaritmo di Dio”, anche questa data fiorentina è ovviamente sold-out da mesi (insieme alle altre due di Milano e Roma), e il colpo d’occhio che regala il Nelson Mandela Forum a pochi minuti dall’inizio non fa che confermare ciò che è troppo chiaro per i numeri: migliaia di corpi in ebollizione spalmati dalle tribune laterali fino a ogni possibile spazio del parterre, una densità di popolazione che nemmeno piazza S.Pietro il giorno dell’elezione del Papa , con migliaia di occhi che anche qui non aspettano altro che una fumata bianca, forse più laica, ma non meno sacra ed emozionante.
Così, sulle prime note di “Babel”, energica ballata bluegrass in perfetto stile Mumford, l’attesa si scioglie in un delirante boato, le migliaia di corpi stipati si trasformano in un solo grande animale danzante ricolmo di sudore, folk e felicità. “I Will Wait” e “Whipers in the Dark” completano la tripletta iniziale tutta energia e cori-da-stadio e si stenta a credere che, in tempi di campionamenti spinti e beat elettronici, siano un banjo, un contrabbasso e poco altro a ipnotizzare e guidare migliaia di fan verso un delirio e una venerazione che ha riscontri simili solo nel pop di alta classifica. Ma come sanno bene questi ragazzi inglesi, non si vive di solo sudore e combat-folk, non possono essere solo il ritmo serrato e i saliscendi folk-rock ad alimentare un’intera serata, anche per un mera esigenza fisica, così, grazie a una perfetta sceneggiatura, il registro del live cambia notevolmente, l’atmosfera si placa e ne guadagna in intimità, complice la bella performance vocale di Marcus in “White Blank Page” seguita dalle serene armonie di “Timeshel” e “Holland Road”.
Copione perfetto si diceva e allora dopo la necessaria pausa di contemplazione, dopo aver ristabilito un battito cardiaco accettabile, l’inevitabile risalita verso una delle vette della setlist è affidata alla potenza melodica di ”Little Lion Man”, attesa, vista la reazione del pubblico, come acqua nel deserto e salutata con danze e vibrazioni quasi dionisiache. Forse è in questa capacità unica di creare una dimensione incantata che risiede il segreto di tanta venerazione e successo, è nella istantaneità senza filtri della musica, con i suoi formidabili ganci melodici, e dei suoi quattro formidabili interpreti che hanno il fiato, la fisicità e la prestanza seducente di un treno in corsa. E fantastico è anche osservare dall’alto ciò che succede nel cuore del parterre, quasi uno spettacolo nello spettacolo, con il pubblico che mette in scena se stesso, organizzando coreografie, muovendosi con perfetta sincronia e diventando un solo corpo che respira, urla, suda e canta ogni singola parola, ogni singola nota. Il resto del concerto è una perfetta sintesi dei due album fin qui pubblicati, “Ghost that we knew” e “Awake my soul” sono due carezze quasi pop che non fanno altro che confermare la chiara trasversalità di questo gruppo. Il finale è affidato a una bellissima e intensa “Dust bowl dance” – con un poderoso Marcus dietro la batteria – forse il pezzo meno Mumford style e sicuramente una possibile nuova strada per le prossime produzioni. Il breve bis con le attesissime “The Cave” e “Winter Winds” invece è quanto di più arrembante e blues e travolgente ci possa essere, il picco di tutta la poetica e l’arte di questi quattro fottuti giovanissimi inglesi, che mescolando Platone e il banjo, Shakespeare e gli ottoni, il bluegrass e il Vangelo, continuano ad arrivare nel posto più difficile da raggiungere per un musicista. Il cuore di chi ti ascolta.
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autore: Alfonso Posillipo