Una delle parole più abusate degli ultimi tempi è resiliente. Se devo pensare ad un musicista resiliente, e al suo archetipo, il primo che mi viene in mente è sicuramente Steve Earle. Il musicista americano ha avuto una carriera fatta di dischi quasi tutti di buonissimo livello, se non ottimi, senza passi falsi. Dal punto di vista personale ha avuto tantissime difficoltà, dai sette matrimoni alla droga, passando per il carcere, il terzo figlio autistico e alla fine la sfortuna più grande per un genitore: la morte di un figlio. J. T. sta per Justin Townes cioè il figlio di Earle morto per overdose l’anno scorso, quindi purtroppo la droga è tornata ad essere l’incubo peggiore per il nostro.
Justin Townes Earle era anche lui un ottimo cantautore che come il padre si esprimeva con il country e con l’Americana, per cui per elaborare il tragico lutto ha fatto un omaggio al il figlio dedicandogli questo ennesimo album nel quale riprende undici suoi brani.
La dodicesima traccia intitolata “Last words”, invece, è scritta dal padre per ricordare le ultime parole che si sono detti. Per gli appassionati tanto dei due artisti, quanto del genere, risulterà un lavoro entusiasmante, sia per le chitarre malinconiche di “Far away in another town” che per gli arrangiamenti stonesiani di “Champagne Corolla” e “Harlem River Blues”. Justin Townes con “They killed John Henry” aveva omaggiato il mito di John Henry e Steve lo ripropone in maniera non dissimile da Bruce Springsteen. Ovviamente la struttura dei brani è quasi sempre quella della ballata che emerge particolarmente in “Ain’t glad I’m leaving” e in “Turn out my lights”. In generale “J.T.” è un bel modo per ricordare un uomo troppo oppresso dai suoi demoni interiori.
autore: Vittorio Lannutti