Chi è Bob Dylan?” “Sono Bob Dylan quando lo devo essere. La maggior parte delle volte sono me stesso.”
Scrivere di Bob Dylan è un po’ come farlo su The Beatles, o qualsiasi artista che abbia connotazioni mitiche, da Omero a Stanley Kubrick, passando per Leonardo da Vinci e possiamo infilarci nel mezzo tutti coloro il cui nome, per la loro arte e i frutti che ha disseminato, continua rimbalzando da una parte all’altra dei continenti. È facile comprendere i motivi della leggenda per il quartetto di Liverpool o per il celebre pittore e inventore di Vinci, le novità che avevano portato alla luce, per esempio le tecniche di registrazione per gli uni e l’utilizzo della prospettiva per l’altro, produssero risultati unici. Dylan invece fin dai suoi primi anni, si presentò spoglio, con i ‘soliti accordi’, una chitarra acustica, armonica e nessuna dote particolare a parte una discreta abilità per cucire parole in frasi da storie oniriche, visionarie, che lo ricoprirono di appellativi come poeta, cantante di protesta, messia, dai quali passò il resto della vita cercando di scostarsi. Nessuno lo aveva mai fatto prima, mi si obietterà, era questa la sua novità, aver unito Blake, Coleridge, la Bibbia con Woody Guthrie, Hank Williams, Sonny Boy Williamson etc. Ma Dylan oggi 24 maggio compie 80 anni e sono più di 60 che ci ostiniamo a scovare nel suo repertorio incredibili scoperte musicali. Gli “espertoni” continuano a rigirarsi tra le mani canzoni e album, in cerca di spiegazioni che spesso assumono le caratteristiche di vere e proprie giustificazioni. Nessuno capisce Dylan fino in fondo, nessuno riesce ad arrivare al bandolo della matassa, ce ne sono vari e si sorreggono sulle proprie gambe che poi sono solo due, quelle del cantante. È stata scritta qualunque cosa, tutto e nulla quindi, concordando unanimemente sulla sfuggevolezza del personaggio e sulla difficoltà nell’interpretarlo, ognuno ha le sue domande (spesso le solite) ma le risposte sono diverse. Qualcuno si è messo anche a collezionarle per avere su uno stesso argomento una raccolta di no sense degna di…Dylan. E così scopriamo che “Like a Rolling Stone” era uscita per la “rabbia che provi quando entri in un negozio, chiedi un cacciavite e ti rispondono dopo un’ora, poi vai a mangiare qualcosa e vedi che il tuo piatto è una merda. Vai al cinema e ti siedi su una poltrona inzaccherata.
Esci, fai un giro e l’auto si rompe. Con chi te la prendi? Non parla di una persona in particolare”, nessuna critica al sistema quindi, come “It’s All Over Now Baby Blue” non parla della fine del capitalismo, “l’ho scritta per David Blue (un folksinger della scena del Greenwich Village)» e meno che mai “Mr. Tambourine Man” è sulla droga, “sono stronzate senza senso”. “Gates of Eden” parla del Muro di Berlino? “Pensavo all’Eden, tutto qui”.
E così via negli anni, smontando dalle parole dei suoi testi, ogni epicità con cui erano state ricoperte da critici e pubblico. Quando da giovane e ancora mister nessuno, andava raccontando un monte di panzane sui suoi viaggi, avventure ispirate alla vita degli hobos americani che seguivano le rotaie dei treni durante gli anni della depressione, lui era solo Robert Zimmerman, un giovanotto ebreo della middle class, ma come un novello Pirandello, il suo primo personaggio gli era già sfuggito di mano e non lo riprese mai più, come tutti i seguenti che avrebbe creato.
Il film “I’m Not There” (2007, co-sceneggiato e diretto da Todd Haynes e Oren Moverman, una delle poche interpretazioni del personaggio che ha ottenuto il suo beneplacito) lo ha descritto attraverso sette attori, uomini e donne, impegnati ognuno in un’allegoria di una delle sue varie fasi musicali, forse è la strada giusta per continuare a non capirlo, semplicemente accettarlo nelle sue mille sfaccettature. E se l’unicità di Dylan fosse la sua dote di drammaturgo, sceneggiatore della propria figura artistica? Una sorta di influencer la cui immagine però non è basata sul nulla a cui siamo abituati oggi, ma su un songbook di tutto rispetto, seppur non micidiale come poteva essere quello, per altro molto più ridotto, di The Beatles o, per rimanere nell’ambito della poesia, di Leonard Cohen?
È sempre stato attento al music business, tanto da vendere ultimamente il suo catalogo alla Universal, più di 600 canzoni e chissà quanti inediti ancora, per una cifra sconosciuta, non si sa a quanti zeri. Far parlare di sé senza raccontare nulla e senza concedere un granché di interviste, gli è riuscito bene, la voce (a partire dagli anni’80) e le doti chitarristiche hanno sempre un po’ lasciato a desiderare, non siamo nessuno per dirlo, ma le sue composizioni non sono costruite su complicati schemi e, anche se semplici, le melodie sono più evidenti nelle versioni di altri artisti rispetto alle originali. Neil Young in confronto è Beethoven e Paul McCartney, Mozart. Se oggi ci sentiamo presi per il culo dagli influencer, Dylan a partire dalle sue prime interviste degli anni ’60, rigirava parole confondendo gli esagitati intervistatori che volevano spodestarlo dal piedistallo su cui avevano sentito il bisogno di collocare. La sua ironia era per quella società in cerca di miti ed eroi da un giorno e poco più, meglio avessero a che fare con uno dei suoi alter ego mentre lui aveva chiaro che sarebbe durato per sempre…
https://www.bobdylan.com/
https://www.facebook.com/bobdylan
https://www.instagram.com/bobdylan/
autore: Lorenzo Donvito