Gli amanti dell’indie rock positivo e non estremo, magari un po’ nostalgici delle atmosfere rock-pop anni ’80 alla Waterboys, possono definitivamente trovare con Dear Miss lonelyhearts la loro nuova band preferita: i Cold War Kids, se ce ne fosse stato bisogno (e non ce n’era) al loro quarto album si candidano davvero come una delle migliori band del pianeta nel loro genere.
Li abbiamo visti evolversi dagli esordi fortemente seventies di Robbers an
d Cowards, passando per l’acerbo ma già splendido capolavoro che è Loyalty to Loyalty, in cui non facevano rimpiangere i White Stripes dei tempi migliori e Jeff Buckley, fino a Mine is Yours, in cui svoltavano verso gli eighties di U2, Queen, Inxs e più di tutti, come detto, i Waterboys.
I quattro di Fullerton, Nathan Willett (voce, pianoforte), Matt Maust (basso) e Matt Aveiro (batteria) e Dan Gallucci (ex Murder City Devils, e Modest Mouse) a sostituire l’ottimo Jonnie Russell alla chitarra, confermano la svolta rock-pop, ma non fanno rimpiangere i primi due splendidi e sperimentali lavori.
Freak Out li aveva già accolti con entusiasmo ai tempi del loro secondo album, e col terzo aveva già gridato a miglior band del decennio: quindi gli aficionados non saranno sorpresi di sentire che questo Dear Miss Lonelyhearts altro non è che una conferma dell’incredibile talento esplosivo della band californiana, basato soprattutto su batterie travolgenti, un basso solido, e una voce splendida, che sa muoversi dai toni acuti e hard-rock non falsettati fino alle sfumature più accattivanti delle voci melodiche di un Michael Hutchence o di un Mike Scott.
Il loro talento sta anche nel cambiare, album per album, rimanendo gli stessi, dono che fin qui è stato solo dei grandissimi del passato: se il primo album era indie-rock sperimentale, e il secondo era un omaggio all’hard rock anni ’70 (led Zeppelin in primo luogo) questo, pur nella continuità del marchio Cold War Kids conferma la svolta eighties del terzo ma ci aggiunge una maggiore ricerca di synth e atmosfere elettroniche e una significativa presenza di ballads dai ritmi lenti e dai toni tristi.
Così commenta il leader Nathan: “Ci siamo dati una mossa, per essere pronti lasciare che ogni canzone possa arrivare più in là che in passato, provando nuovi stili e arrangiamenti e curandoci più del prodotto finale che di come arrivarci.”
Con i cori a più voci in sottofondo e la presenza amplificata di synth, archi e soluzioni a sfumatura elettronica, presenti come non mai in questo quarto lavoro, il paragone viene inevitabile con i Killers, altra band di questi tempi che guarda al passato pur mantenendo il target sull’indie: ma a differenza di Brandon Flowers e compagni, i Cold War Kids non danno l’impressione di essersi persi per strada né di aver perso il loro sprint tutto indie, anche se certo la sperimentazione, la “cattiveria” e la grinta negli ultimi due album lasciano di più il posto alla melodia e alle soluzioni raffinate. Piano e voce più che chitarra e batteria, per capirci.
Abbiamo parlato di ballads, ma l’album inizia fortissimo con Miracle Mile, probabilmente il pezzo più bello, sicuramente il più trascinante e solare, candidato all’esplosione dal vivo: segue poi ancora un ritmo alto con Lost that Easy, e fin qui sono i Cold War Kids che già conosciamo (anche se Lost that Easy introduce già i loop e i synth). Atmosfere fin qui inesplorate dalla band emergono invece in Loner Phase e Fear and Trembling: nella prima ancora un intro elettronica, e un ingresso di batteria e una scelta vocale che richiamano da molto vicino i Killers (quasi una citazione); nell’altra quello che già si intravedeva diventa esplicito. Parliamo dei toni tristi e malinconici, di una cupezza marcata dai ritmi lenti che fin qui la band non aveva rivelato.
Siamo al momento dei pezzi lenti, che segue con Tuxedos, la più tipica delle ballate dolci e romantiche, e chiude nel finale con la title track e con Bitter Poem.
Nel mentre, i momenti forse più alti: Bottled Affection, costruita su effetti al computer e loop campionati, ma sulla quale si staglia una musica fantastica, Jailbirds, introdotta da una batteria che non ti fa stare fermo, su cui Wallet dà il meglio di se, seguito dagli altri membri nel loro pieno esplodere, e poi Water & Power, introdotta dolcemente da un piano, su cui si erge solitaria la voce, fino al crescendo in cui si inseriscono un rullare di batteria e una melodia travolgente, toni inediti del vocalist, e i cori del ritornello fino alla conclusione cantata a cappella, a confezionare un pezzo che è senza dubbio la più evoluta e coinvolgente citazione di quel rock-pop anni ’80 che è, in questa fase di ricerca della band, la loro meta e il loro punto di riferimento.
Che altro si può aggiungere? Cooperative Music, da tempo attenta ai migliori talenti del genere, non si è lasciata sfuggire questi quattro ragazzi sin dal nascere, e li sta fedelmente accompagnando in un percorso di crescita che sta travolgendo ogni tappa.
Chi pensa che sia solo opinione del sottoscritto, può fidarsi forse dei sold out che per aprile giugno si registrano nel loro tour americano, mentre per maggio sono in visita in Europa ma purtroppo ancora non in Italia. Anche se manca la prova diretta per il pubblico italiano, c’è da giurarci, per come suonano e travolgono per qualità dell’esecuzione e per scelta delle melodie, che il loro live è un’esperienza indimenticabile.
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autore: Francesco Postiglione
La Tracklist del disco:
1. Miracle Mile
2. Lost That Easy
3. Loner Phase
4. Fear & Trembling
5. Tuxedos
6. Bottled Affection
7. Jailbirds
8. Water & Power
9. Dear Miss Lonelyhearts
10. Bitter Poem