Poros e Penìa. Abbondanza e privazione. Il necessario e naturale eccesso che esiste nella sottrazione, nel vuoto. L’addizione esponenziale nella diminuito. L’una (es)senza non può prescindere dall’altra. Dualità.
Enrico Iannaccone, nel suo ultimo film “La Vacanza” (una produzione Mad Entertainment Big Sur con Rai Cinema – prodotto da Luciano Stella e Maria Carolina Terzi), con equilibrio ed eleganza, ha rappresentato un poliedrico universo emozionale, psicologico e relazionale, camminando scalzo sul ghiaccio sottile che divide la retorica, l’ovvietà e la gratuità dell’iperbole dalla narrazione “vera”.
Con una scrittura e una regia personale, in perfetta simbiosi con una riuscita fotografia (di Gianluca Palma), “La Vacanza” si colloca tra i film d’autore, lasciando nello spettatore l’esigenza di visione, l’urgenza della riflessione e un senso di (inaspettata) pace, seppur nella bipolare forte ed ecumenica drammaticità dei personaggi e degli avvenimenti: Iannaccone è riuscito a stupire con naturalezza, denudando la scena da ogni (o)scenità.
Poros e Penìa, abbondanza e privazione, il necessario e naturale eccesso che esiste nella sottrazione, nel vuoto, l’addizione esponenziale nella diminutio, opposti in crasi totalizzante: la catabasi si fa anabasi e viceversa, per un percorso che si purifica nella propria dannazione, nella condanna dell’umanità a essere umano animale imperfetto, universalmente relativo.
‘L’innecessaria urgenza (non lo è sempre, d’altronde?) da cui muove il soggetto de “La Vacanza” trova le sue radici nel maldestro tentativo di deframmentare, mediante una sincopata ossigenazione, quel che è il ponderoso bagaglio emotivo di anime dolenti come quelle dei due protagonisti – spiega Iannaccone – È nel pandemonio interiore che si avvicendano ricordi, pensieri, proiezioni e desideri (tendenzialmente autolesivi) dai quali emergono gli strumenti per affrontare – forse male – la lotta con un presente asfissiato dalla sua apparente e marziale eternità, condizione puntualmente disattesa dai continui “sgambetti” dell’immediata posteriorità. Il passato è benzina per raggiungere la meta del domani e, al contempo, per non raggiungerla mai dando in pasto alle fiamme un nunc intollerabile. La differenza sta nella gestione, ancora una volta: Valerio allontana, Carla trattiene. Eppure, nonostante i gravosi tentativi di entrambi, la vita in quanto idea continua a sfuggire dalle mani come una tempesta di sabbia che costringe il sé alla terzeità, rendendolo spettatore delle proprie meccaniche azioni dettate da uno schizofrenico rapporto con lo spazio (corpo) ed il tempo (interiorità)’.
Avanti alla camera, un’esatta Catherine Spaak (Carla), donna, madre e bambina, matura e assennata nella senile infantilità è funambolo di se stessa e un puntuale Giano bifronte Antonio Folletto (Valerio) hanno “messo a fuoco” l’obbiettivo di Iannaccone (ma a ben vedere tutti gli interpreti hanno impersonato il giusto ruolo loro assegnato – tra i coprotagonisti Carla Signoris, Veruschka von Lehndorff, Luca Biagini).
Nel vedere “La Vacanza”, mi è tornato in mente il Simposio di Platone, nel passo in cui si racconta della nascita di Eros: “Quale figlio di Poros e di Penìa, Amore si trova in tale condizione: è sempre povero e tutt’altro che tenero e bello, come invece ritengono i più, anzi è aspro, incolto, scalzo e senza casa, si sdraia sulla terra nuda, dormendo all’aperto innanzi alle porte e per strada, per la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall’indigenza. Diversamente per parte di padre, insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e ardito e veemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi, avido di sapienza, ricco di risorse, e per tutta la vita innamorato del sapere, mago ingegnoso e incantatore e sofista; e non è nato né immortale né mortale, ma in un’ora dello stesso giorno fiorisce e vive, se la fortuna gli è propizia, in altra invece muore, ma poi rinasce in virtù della natura del padre, e quel che acquista gli sfugge sempre via, di modo che Amore non è mai né povero né ricco, e d’altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza”.
Marco Sica