Come si fa a 71 anni suonati a incidere con la band degli inizi ancora dell’ottima musica rock in un’epoca in cui il rock è in declino?
Beh è semplice: devi essere un membro dei Rolling Stones, oppure devi essere Bruce Springsteen. A mio parere non esistono a questo mondo in vita altre persone capaci di ciò, salvando forse qualcosa di Iggy Pop e dei Pink Floyd fintanto che esistevano come band.
Il punto è che il nuovo disco del Boss, il ventesimo in totale e il dodicesimo composto e scritto con la sua (quasi) immortale E-Street Band, che senza i mai troppo rimpianti Big Man Clarence Clemmons e Danny Federici comprende adesso Roy Bittan, Nils Lofgren, Patti Scialfa, Garry Tallent, Stevie Van Zandt, Max Weinberg, Charlie Giordano, Jake Clemons, suona come un disco fresco, vivo, frizzante, emozionante, pulito, istrionico, energico, a tratti dinamite pura. Ciò che è ancora più incredibile se si pensa che è stato scritto in 10 giorni, inciso in 5 giorni a novembre scorso nello studio privato del Boss in New Jersey, dove la band si è riunita e ha messo giù tutto suonando dal vivo senza demo pezzi scritti dal Boss ad aprile del 2019 (tranne tre di cui diremo).
E’ un disco, anzitutto, scritto ben otto anni dopo l’ultimo album di inediti pubblicato con la E-Street Band (Wrecking Ball del 2012), considerando che High Hopes era una rivisitazione di vecchi pezzi e lati b e Western Stars come noto era un disco solista con altri musicisti ad accompagnarlo.
Ed è un disco scritto non tanto con la E-Street Band ma per la E-Street Band: all’epoca di Western Stars, appena un anno fa, (ma nel mentre c’è stato pure il film da lui diretto omonimo e Springsteen on Broadway, 256 spettacoli estenuanti di one-man-show) Bruce ammise che non gli veniva niente da scrivere per la band, ma che prima o poi sarebbe accaduto. Ed è accaduto, tutto come in un flusso inarrestabile, come già per The Rising, quando nel 2001 dopo le Twin Towers qualcuno lo fermò per strada dicendo “Bruce, abbiamo bisogno di te”. Adesso è come se la E-Street Band gli avesse detto: Bruce, abbiamo bisogno di te! Ma ascoltando questo disco si capisce soprattutto e prima di tutto che anche Bruce ha bisogno della E-Street Band per essere veramente Springsteen.
La musica che lo ha reso una leggenda, la musica che rappresenta la sua anima, è questa, questa scritta e suonata con la band, con la sua e unica band di sempre. Non che Western Stars o The Ghost of Tom Joad o Nebraska non siano capolavori, ma quando c’è Little Steven o l’erede di Clarence, suo nipote Jack Clemmons, o l’inossidabile Max alla batteria, Springsteen si esalta, c’è poco da fare.
Basta sentire quanto è viva la musica in Letter to You, la title track che il Boss dedica ai suoi fan e alla sua band introducendo con lei il disco e chiamandolo col suo nome perché la chiave di tutto il disco è in questa lettera d’amore accorata e sublime. Qui il Boss dice: dentro questo disco ho messo tutto il me stesso di adesso, ma anche tutto il mio passato, tutte le mie cose buone e i miei errori, “tutto il riassunto di ciò che il mio cuore sente come vero: questa è la mia lettera a voi”. Oppure basta ascoltare Ghosts, il secondo singolo, la canzone più energica e potente del disco, in cui tutti cantano in coro assieme e c’è il classico momento solista di ciascun musicista. Ghosts è il classico esempio della canzone-tutta-energia di Bruce con la sua band: non è un caso che qui si parla di spiriti che lo accompagnano nel suo cammino mostrandogli la luce, e lui grida “grazie a voi sono vivo, e sto tornando a casa”.
Tutto il disco è un album senza tempo: non riesci a capire se le canzoni sono scritte oggi o nel passato, tanto somiglia a se stesso senza smagliature questo nuovo Springsteen di 71 anni (letteralmente) suonati. Sarà forse per questo che gli è venuto facile inserire tre canzoni che davvero risalgono al ’72 e ’73, all’inizio della carriera addirittura, recuperati dall’infinito repertorio di incisioni, demo, inediti, ormai leggendario, del Boss: Song to Orphans, Janey Needs a Shooter e addirittura una chicca assoluta, If I Was the Priest, la canzone che suonò al primo leggendario provino davanti a John Hammond per la Columbia, e che solo per questo farebbe la follia dei fan più accaniti. Canzoni che si confondono benissimo con canzoni come Ghosts o House of a Thousand Guitars, mentre non mancano nemmeno i brani che all’istante riconosci appartenere al Boss del terzo millennio, come I’ll See You in My Dreams o Letter to You, che starebbero benissimo in album come Magic, o Rainmaker, che sembra provenire dalle sessions di Wreckin’ Ball.
La faccenda magica di questo disco è che trovano spazio, però, anche brani che collocheresti nello Springsteen anni ’80, in Born in the Usa o in Lucky Town o Human Touch, come per esempio la splendida Burnin’Train, o Power of Prayer.
Insomma, questo disco è un trionfo musicale di autocitazioni, nel quale indubbiamente non troverete recenti sperimentalismi o tentativi di percorrere altre strade musicali (come invece in The Rising o Wreckin’ Ball o Western Stars), e certamente qua e là vi verrà di dire “questo passaggio l’ho già sentito nella sua discografia”, e questo può senz’altro essere il difetto principale del disco.
Ma va bene così, fare a 71 anni quello che si è fatto sempre senza variare (e peggiorare) è già tanto, ma c’è da dire poi che questo disco, per quanto non innovativo nel sound della band, suona però maledettamente VIVO.
Non solo perché è stato registrato live, come detto, ma perché l’essenza della E-Street Band e del Bruce-con-la-E-Street-Band è un’essenza tremendamente live: questo disco è già pensato, e già suona perfetto per un tour, anche se il COVID stavolta ferma anche il Boss.
Ed è uno dei rari dischi in cui la musica per il Boss conta più dei testi, è come se la musica esondasse, come se la E-Street Band, sul punto di scoppiare di inedia e inerzia, fosse stata presa al momento giusto per tirare fuori tutto quello che è e che rappresenta.
La musica la fa da padrona, certo, ma va detto comunque che i testi sono sempre quelli di Springsteen, e qui arricchiti anche da testi originali degli anni ’70, quando Bruce cantava storie di strada (Janey Needs a Shooter ne è il perfetto esempio). Lo spunto nuovo non manca tuttavia: c’è una sotto-trama testuale, che da One Minute You’re Here, la prima canzone in cui è appena evocato Big Man Clemmons, va a Letter to You fino a I’ll See You in My Dreams, passando per Ghosts e Last Man Standing, insieme con House of a Thousand Guitars.
Non parleremo proprio di concept album (come per tanti altri dischi del Boss, da Born to Run a The Rising a Nebraska a Devils and Dust e Ghost of Tom Joad) ma la sotto-trama è esplicita: è la trama di un uomo di 71 anni che fa i conti col suo passato e presente e lo confessa ai fan e ai suoi amici più cari (Letter to You), perfettamente consapevole che questi contano ormai più del suo futuro, e pertanto va avanti con tenacia e serenità ma ricordando continuamente i suoi compagni di viaggio perduti, Clarence Big Man Clemmons in primis (“One Minute you’re here”, dice nella canzone omonima, “Next Minute you’re Gone”), e anche George Theiss, il vocalist della sua prima band Castiles scomparso nel 2018, ricordato in Last Man Standing. Ma se scorri il testo scopri che è Bruce il Last Man Standing: dopo la morte di Theiss, infatti, il Boss scrive questa canzone scoprendosi l’ultimo in vita dei Castiles, e scoprendo quanto ciò fa male e contemporaneamente fa sentire vivo: “conti le persone scomparse come un conto alla rovescia”.
Confessa il Boss a proposito di questa canzone: “Lui è morto pochi giorni dopo il nostro ultimo incontro e questo ha trasformato me nell’ultimo sopravvissuto della mia prima band. Questo non è normale, ovviamente, perché la maggior parte di loro è morta giovane. Così ho iniziato a scrivere con questo nella mente, riprendendo cose che vanno indietro fino ai miei 14 anni e cose di oggi. Il disco quindi spazia in un tempo molto ampio, prende la mia prima band, la mia band di oggi e tutto quello che ho imparato nel frattempo, tra i 17 e i 70 anni”. Si comprende allora la perfetta collocazione della canzone dei primissimi esordi If I was A Priest, piazzata ben 50 anni dopo la sua nascita, e le altre due perle nascoste dei primissimi anni. Perché il disco è un tributo anche al passato musicale della band, e quindi anche della E-Street Band dei primi passi, quando ancora c’erano Vini Lopez e David Sancious.
E l’album è perciò per tutti loro, e anche per Danny Federici, il grande tastierista scomparso ancora prima di Clarence. Scrive infatti in Ghosts “Alzo il volume e lascio che gli spiriti mi guidino: vi incontrerò fratelli e sorelle, dall’altro lato”. Ed ecco perché testualmente e moralmente, oltre che forse musicalmente, Ghosts è la canzone centrale: gli spiriti, per il Boss, sono sempre stati positivi, sempre al fianco dell’uomo che cammina nella vita, e più che mai adesso Bruce sente arrivare il momento in cui ha bisogno che gli siano vicini. Sempre per questo Bruce evoca, contro il male che aleggia e serpeggia nelle città (Trump qui è solo evocato, come in Rainmaker, mai nominato o indicato esplicitamente, perché Bruce sa che non un solo uomo ma un intero paese è alla deriva e lo racconta ampiamente nei monologhi di Broadway), la House of a Thousand Guitars della canzone omonima, ovvero un tempio per le persone buone, gli spiriti positivi, e naturalmente tutti i rocker di ogni tempo: “fratelli e sorelle, ovunque voi siate, sorgeremo insieme finché infiammeremo la scintilla che accenderà la luce nella casa delle mille chitarre: tutte le anime buone vicine e lontane si incontreranno nella casa delle mille chitarre”. E la casa delle mille chitarre è l’unico tempio religioso per Bruce, esattamente come la preghiera di cui parla nella forse troppo retorica The Power of Prayer è “un gioco prestabilito ma senza regole fisse, un asse vuoto su una nave di folli”.
E’ proprio il Boss a dare la migliore valutazione critica di questo disco: “Il disco è centrato su due argomenti, quello della perdita e quello della gioia di fare musica come membro di una rock’n’roll band, quella strana sorta di fratellanza in cui entri quando sei molto giovane, il che significa che 45 anni dopo stai ancora suonando con le stesse esatte persone con le quali andavi al liceo. Non ci sono altri lavori che te lo permettono. È questo che ha ispirato la scrittura del disco e ho scritto le canzoni in circa dieci giorni. E la band le ha registrate in cinque giorni. Abbiamo realizzato due canzoni al giorno, tre ore a canzone e alla fine del quinto giorno avevamo il nostro disco”
Musica e ispirazione nel segno della continuità, dicevamo: ecco perché Bruce sceglie ancora la Columbia, e come produttore Ron Aiello (già presente negli ultimi dischi), insieme a Bob Clearmountain al mixer. Ma parlare di produzione musicale per questo disco è probabilmente errato: in 5 giorni non si può fare post-produzione, ed è evidente dal suono roboante che a partire dalle tracce di base scritte dal Boss in soli dieci giorni la band è andata quasi a occhi chiusi in soli altri quattro giorni, seguendo un refrain che dura da ben cinquant’anni. E che il tempo pare gli abbia fatto la grazia di non essere capace di fermare.
autore: Francesco Postiglione
TRACKLIST
1 – One Minute You’re Here
2 – Letter to You
3 – Burnin’ Train
4 – Janey Needs a Shooter
5 – Last Man Standing
6 – The Power of Prayer
7 – House of a Thoousand Guitars
8 – Rainmaker
9 – If I Was the Priest
10 – Ghosts
11 – Song for Orphans
12 – I’ll See You in My Dreams