John Grant è stato il fondatore degli Czars, uno dei gruppi più sfortunati del panorama alt-folk degli anni novanta. Non è la prima volta che formazioni talentuose ed artisti validi che non ottengono riscontro di mercato finiscano poi nel dimenticatoio. John Grant alla fine di quell’esperienza ha deciso di lasciar perdere tutto salvo poi ripensarci e dopo il debutto solista del 2010 con Queen Of Denmark ritorna oggi in rinnovata forma per regalarci un album davvero particolare e molto intenso.
Pale Green Ghost è stato registrato per la maggior parte in Islanda e le varie influenze che vanno dal noir stiloso degli Czars al rock radiofonico anni settanta del primo album solista si ritrovano tutte qui, rese ancora più immaginifiche da veli di elettronica, beat e pulsazioni che ne rinfrescano il sound.
Nella prima omonima traccia impressiona la vicinanza tra John Grant e Brendan Perry dei Dead Can Dance; la profondità spaziale del brano, accentuata dal pattern ritmico elettronico e minimale amplifica fortemente questa suggestione e gli archi verso la fine accentuano lo smarrimento sensoriale. Se l’inizio è una promessa, sarà un disco formidabile. Spiazzante cambio di atmosfera che vira dal ieratico di prima alla strana low-dance notturna e ipnotica di Black Belt: è evidente che la collaborazione con gli Hercules & Love Affair abbia lasciato più di un segno. GMF, con il featuring di Sinead O’Connor, invece ci riporta in territori più consoni al passato di Grant, per certi versi affini agli Arbouretum più sereni e alle semiballads di appannaggio seventies.
Queste differenti ‘tipologie’ di brano rappresentano un po’ i modelli cui ci si atterrà nel resto dell’album, modulandone le gamme cromatiche verso questo o quell’altro ‘genere’ a seconda delle esigenze espressive delle singole tracce cioè dei relativi contenuti tematici. Non si disdegneranno però all’interno di questi schemi delle accentuazioni barocche come in Vietnam (che insieme al brano precedente, GMF, rappresenta la parentesi più amabilmente seventies dell’album) o in It Doesn’t Matter To Him, utilizzando allo scopo sia archi che synth.
Ritorna quindi anche la tensione ‘disco’ della deep house in Sensitive New Age Guy, pervasa da turbe new-wave rivelatrici delle passioni musicali e degli ascolti del barbuto artista nativo di Denver, fino ad arrivare ad uno dei brani più importanti di Pale Green Ghosts, quella Ernst Borgnine in cui suona il sassofonista islandese Óskar Gudjónsson ed in cui – in un disco già denso di riferimenti a temi scottanti quali sesso e sessualità, condizionamenti religiosi e condizione omosessuale – Grant dichiara del suo essere sieropositivo, outing questo risalente al London’s Meltdown festival dello scorso anno.
Allo stesso modo sospetti di inquietudine ad un passo dalla darkwave sono ben evidenti quando l’elettronica si fa più cupa pur mantenendo – grazie ai cori femminili – una levità di fondo che rende il tutto molto elegante. Un esempio perfetto ci è fornito da Why Don’t You Love Me Anymore, tra i picchi dell’album.
Album quindi più che consigliato per quel che ci riguarda.
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autore: A.Giulio Magliulo