Un’organizzazione imponente, quella messa in campo dall’Ischia Film Festival, per garantire agli spettatori dal vivo, di vivere la magia dell’evento tra le mura della sua location elettiva, il Castello Aragonese. Gruppi di hostess e operatori sono in sequenza impegnati a garantire che le procedure di distanziamento interpersonale siano rispettate e ogni passo della procedura rispettato: misurazione della temperatura, controllo dell’accesso e accompagnamento al posto, presenza della mascherina e obbligo di indossarla all’interno dello spazio dedicato alla prima serata di incontri e proiezioni, il piazzale delle Armi. Il flusso delle persone sfila lento lungo le mura austere di quello che un tempo ospitò il cenacolo di Vittoria Colonna. Ora quei bastioni fanno da scena alla kermesse voluta da Michelangelo Messina.
La diciottesima edizione dell’Ischia Film Festival è “Live”, questo il tema per il 2020, ma molte delle pellicole in programmazione sono disponibile soltanto in streaming e per un tempo troppo ridotto. La serata inaugurale è dedicata a Liam O Neill, autore irlandese, deceduto per effetto del Covid -19. La proiezione del suo cortometraggio “Kathleen” avrebbe dovuto dare il “la” alla prima serata, finendo poi, per problemi tecnici, per chiuderla. Toccherà ad un grande mattatore, Sergio Rubini, rompere il ghiaccio. Al pubblico della kermesse presenta il suo ultimo lungometraggio, “Il grande Spirito”.
“Un film che parla della salvazione” – racconta al pubblico il regista e attore pugliese – “ambientato interamente sui tutti di Taranto”. “La scelta della location – continua – è arrivata dopo l’idea di far incontrare due personaggi dalle visioni opposte. È la storia di un filosofo, un asceta, un matto che incontra un reietto, un uomo della strada. Volevo raccontare attraverso di essi la storia della fatica che ci vuole per salvarsi, per risalire. Della salvazione come ascensione. In un certo senso la mia è la storia di un lockdown improvviso”. Un western urban, quello messo in scena da Rubini, i cui due protagonisti, Tonino e Renato, alias Cervo Nero, sono interpretati dallo stesso Rubini e da Rocco Papaleo.
Renato, il filosofo, crede di essere Cervo Nero, l’ultimo dei Sioux, sotto l’assedio degli yankee. Anche Tonino è assediato, ma dai suoi ex complici e nell’incontro inaspettato con il “matto”, trova la strada per la salvezza. “Inizialmente avevo pensato di interpretare io Renato, l’avevo scritto per me, poi però, come per una proiezione, l’ho affidato a Rocco, che ha messo nel personaggio qualcosa di unico. Ero come in trans, mi ha confidato lui stesso e in effetti gli ha dato una profondità incredibile”. Sullo sfondo Taranto, agli occhi di Cervo Nero, vittima delle scorribande yankee. “Taranto è una delle città più belle d’Italia, è bagnata da due mari , e segnata dalla presenza dell’Ilva. È una città paradossale, che incarna le contraddizioni della civiltà occidentale. I tarantini vivono e muoiono di Ilva”. Un assedio, proprio come quello immaginato da Renato, in un film duro che però non rinuncia ad un’anima sognante. “Fa parte del mio essere un uomo del Sud. Dei miei ricordi più profondi. Mia madre ci raccontava spesso di una cugina morta in tenera età con cui aveva fatto un giuramento: chi delle due fosse morta per prima, avrebbe raggiunto l’altra per raccontarle com’è l’al dilà. Quella cugina morì e qualche anno dopo accadde che una bambina vestita di bianco venne a trovarla, che era già sposata, senza incontrarla, Quella bambina aveva chiesto di lei ad una vicina, ma mia madre non era in casa. Ha sempre pensato che quella bambina fosse sua cugina, venuto a dirle com’era l’al di là. Sono cresciuto in questo sentimento, ho imparato a credere e allo stesso tempo non credere a questi racconti. È la capacità di sovvertire, di dare anche alla realtà più disperata la possibilità di essere qualcos’altro”.
Durante l’incontro con Sergio Rubini non è mancato un omaggio al grande maestro che per primo lo volle sullo schermo, Federico Fellini. “Avevo vent’anni, ero a Roma. Come tutti, non solo attori ma anche gente comune, mandai le mie foto a Fellini. Non avevo un book, erano foto fatte da un mio professore di matematica che si dilettava. Quando incontrai il maestro mi disse: complimenti lei assomiglia alle sue foto”. “Fu un insegnamento – continua Rubini – importantissimo, come tanti altri dati dal maestro. Si alzava prestissimo, era insonne e alle sei aveva già letto giornali e sceneggiature ed era pronto a tessere la sua rete di legami, collegamenti, discussioni. Già alle sei poteva arrivare la sua telefonata in cui ti chiedeva di contattare questo o quello su un’idea che gli era venuta o una suggestione. Io ero tra quelli che la mattina mettevano la sveglia in attesa della sua telefonata. Ricordo all’epoca abitavo con un’attrice che mi credeva pazzo: alle 5 mi alzavo e facevo i gorgheggi per non far sentire la voce impastata dal sonno. Anche quello fu un grande insegnamento. Già allora volevo fare il regista e ditemi voi cosa può mai raccontare della vita uno che si alza tardi?”
All’attore e regista pugliese è stato consegnato un riconoscimento alla carriera. “Lo prendo di buon auspicio, per la ripartenza. Siamo stati il primo settore a chiudere e l’ultimo a riaprire, auspico che allo cultura e allo spettacolo siano dati maggiore attenzione” dichiara prima di lasciare il palco a Francesco Di Leva, anche lui accolto con un omaggio dall’Ischia Film Festival. Emozionato, l’isola ha visto i suoi esordi “è qui che ho incontrato Martone durante un corso di teatro da lui tenuto nella villa di Visconti”, Di Leva sale sul palco come fosse su un ring: “dovevate far parlare prima me, come si fa dopo Rubini? Quello è un incantatore!” dice con la sua voce inconfondibile, roca, soltanto un po’ spezzata dal turbinio di sentimenti suscitati dal momento. Rubini del resto è stato un promotore del progetto che è nato dalla palestra di quella scuola che lo iniziò al teatro, a San Giovanni a Teduccio (quartiere nella periferia orientale di Napoli, ndr). “Venne all’inaugurazione insieme ad un altro grande che voglio ricordare, Ennio Fantastichini” ricorda l’attore partenopeo. Lo scroscio d’applausi è tanto immediato quanto spontaneo. Come le parole di Di Leva che appaiono come un susseguirsi serrato e inesorabile di ganci. Viene quasi da compatire il povero Luca De Filippo, caduto sotto le sue pressanti richieste. “Volevamo i diritti de Il sindaco del rione Sanità ” afferma. “Ogni 20-25 giorni telefonavo a Luca De Filippo per chiedergli di concedermi i diritti, ma niente. Poi all’improvviso furono gli eventi ad assistermi, cominciai a segnalargli articoli di giornale in cui si parlava di un giovane boss del mio quartiere, quarantenne, che veniva interpellato anche per le questioni familiari, di condominio, interpersonali. La nostra intuizione sulla necessità di ammodernare “Il sindaco” era giusta e lui non poteva non darci la possibilità di andare avanti. E lo voglio dire anche per dare merito a Luca, lui concesse i diritti a noi, una compagnia di poco più che trentenni di San Giovanni a Teduccio. Solo dopo arrivò Mario Martone”.
Un legame intensissimo quello con il regista del rinascimento napoletano “come Sergio sentiva Fellini la mattina, io e Mario ci sentiamo la serata. È nottambulo lui. Alle 23, 23.30 arriva la sua chiamata. Una sera mi disse: “ E’ arrivato il momento di fare il film, prima che tua figlia cresca”. È così che nasce l’idea di portare “Il Sindaco” da San Giovanni a Venezia, per trionfare con ben 8 minuti di applausi.
“Mario ha dato ritmo, ha dato un’impronta sua al testo di Eduardo. Quando mi sono approcciato alla sua interpretazione ho pensato all’epoca in cui De Filippo scrisse l’opera: due quarantenni erano al centro della scena mondiale. Ernesto Che Guevara stava andando alla conquista di Cuba e Mohammed Alì aveva dichiarato la volontà di diventare campione del mondo. Eduardo che fa? Scrive il sindaco del Rione Sanità. Non poteva ignorare quello che gli stava accadendo attorno. Era impossibile e allora ho capito che dovevo fare Barracano pensando a quell’epoca e allora ho pensato a Che Guevara, ma non funzionava, e allora ho pensato ad Alì, ogni parola un colpo, leggero come una farfalla, pungente come un’ape, così è venuto fuori il mio giovane “Sindaco””. Di Leva è lì sul palco, chiede alla figlia Morena di mostrarsi al pubblico, bravissima interprete nel film firmato da Martone (è l’amatissima figlia di Barracano, ndr), parola dopo parola si susseguono i fatti, sembra un continuo di diretti e ganci: il Nest, Eduardo, il teatro, Martone, la famiglia, la compagnia, San Giovanni, le soddisfazioni, Ischia, Rubini. Si ferma, per ribadire il concetto: “Eduardo è un grande come Shakespeare, Pinter. Ci sono migliaia di versioni di Romeo e Giulietta”. È arrivata l’ora di riadattare l’opera eduardiana e lasciarla dialogare con il presente.