Un interminabile percorso di studi dal largo ventaglio cognitivo accompagna da sempre la vita e la carriera di Max Fuschetto, indiscutibilmente tra i compositori moderni più stimolanti e sorprendenti.
Le sue ricerche sono entusiasmanti, il suono e le strutture musicali sono esplorate nell’essenza così come nell’estetica in un caratteristico gioco che riflette un accurato equilibrio armonico tra forma e sostanza, coscienziosamente pianificato in una singolare fisionomia compositiva imprevedibile e inattesa, sempre differente, sempre soggettiva.
Durante questo lungo cammino il compositore originario del Fortore si è spesso confrontato con diverse culture musicali, accostando modi di fare non sempre prestabiliti, dando vita in questo modo a innovazioni desunte dall’utilizzo di un linguaggio articolato, figurativo e di fatto più moderno.
Tutto ciò acuisce la relazione immersiva con il suono, le regole universali del pop sono assorbite così dalla musica colta che vagabonda liberamente per sentieri eterogenei e che consentono il superamento di una visione statica o legata a determinate logiche che vanno, in definitiva, a svincolarsi da un immaginario stereotipato e rinchiuso in un recinto identitario/territoriale.
Il discorso vale particolarmente per il bagaglio di nozioni assimilate grazie all’approccio alle musiche etniche, un campo dove il musicista campano si è spesso cimentato, prendendo in prestito ad esempio ritmiche e configurazioni dalle musiche dell’Africa sub-sahariana, grande passione dell’oboista e non solo…
…già da qualche tempo Fuschetto, anche a seguito di alcune collaborazioni, si è interessato ad alcuni aspetti del folklore musicale della comunità Arbëreshë, concretizzando il tutto in una solida cooperazione con la cantante molisana Antonella Pelilli avviata già prima della pubblicazione dell’album “Sùn Ná”, lavoro che poi ha ratificato questo sodalizio artistico fino ai recenti impegni ne Le rose di Arben, insieme al fidato chitarrista Pasquale Capobianco e al percussionista Giulio Costanzo delle Percussioni Ketoniche, con i quali l’autore sta realizzando delle coinvolgenti performance dal vivo.
Da questa collaborazione emerge prima di tutto un’esaltazione della diversità e in questo il nostro resta un campione, considerando le notevoli differenze di registro delle sue produzioni; “Popular Games” (2009), il già citato “Sun Nà” (2015) e il più recente “Mother Moonlight” (2018) sono lavori che nascono da riflessioni, materiali acustici, radici sonore e compositive estremamente differenti tra loro e si sviluppano seguendo molteplici prospettive dall’esito mai scontato.
Non siamo più in quell’Italia senza tempo, dove le ere scorrono lentamente come i pomeriggi di una calda estate in un paesino del Mezzogiorno: la rete e le nuove generazioni imporranno nuove cadenze e linguaggi.
E così anche per la giovane regista Cristiana Lucia Grilli autrice del lungometraggio “Adriatico. Il mare che unisce”, documentario che racconta con il lessico e gli strumenti del nuovo millennio le antiche comunità italo-albanesi stanziate nell’Italia meridionale e insulare già dal sedicesimo secolo.
La regista si è felicemente imbattuta nelle musiche di Max Fuschetto che tra le numerose esplorazioni sonore ha trattato – come già si diceva in precedenza – in maniera singolare delle sfaccettature musicali e culturali della tradizione degli albanesi d’Italia.
La regista ha incluso nel suo docu-film le musiche del compositore, estraendo in un secondo momento questo interessante video-clip, associandolo con gusto alla canzone ‘Si Trendafile’. Fuschetto ha liberamente rielaborato il canto della tradizione popolare albanese ‘Bilbili’ (Usignolo), di cui tra le versioni classiche più autorevoli va citata sicuramente quella dalla cantante Silvana Licursi.
Nel nostro caso la vocalist Antonella Pelilli ne ha riadattato il testo riscrivendo i versi dell’antico componimento, tirando fuori una versificazione più moderna e sostituendo con delle parti certamente più appassionate e delicate, quelle atmosfere decisamente più “meste” del brano originale. D’altronde la rivisitazione del compositore parte già dal titolo: ‘Si Trendafile’ è tradotto “la rosa” e tutta la composizione vive di una nuova luce che si discosta dall’originale nel temperamento, “sprigionando una prospettiva emotiva nuova”, come leggeremo in seguito dalle stesse parole dell’autore.
Le riprese del video provengono dalle città di Tirana, Berat e Kruja in uno scenario suggestivo in cui passato e presente sembrano dialogare in una partita di sguardi tra innamorati. La voce spirituale di Antonella Pelilli fa da guida in questo viaggio: s’inserisce nelle immagini di stradine strette, arieggia tra gli spazi urbani fino ai margini delle città viste dall’alto, tra la natura, nella sua immutabile bellezza alternata ai paesaggi antropici, dilatandosi fino a divenire paesaggio interiore.
Nelle interviste che seguono abbiamo provato a rimarcare i dettagli che più ci interessavano: da una parte il comparto musicale, magistralmente curato da Fuschetto e dall’altra parte gli aspetti della cultura arbereshe tratteggiati dalla cantante Antonella Pelilli.
Inoltre questo nostro breve, sintetico, incompleto, viaggio nella cultura arbereshe prosegue con la descrizione del documentario “Adriatico” , con una terza intervista con la regista Cristiana Lucia Grilli per centrare il suo punto di vista.
Si è scelto di dare spazio ai tre protagonisti di questa clip, ai loro modi di essere innovatori dei differenti linguaggi: quello musicale, cinematografico e della scrittura.
L’argomento è fin troppo articolato per essere esplorato a fondo, pertanto “Google-yourself”, la rete è ricca di informazioni su questo particolare molto affascinante della nostra penisola. Inoltre questo magazine si occupa di musica indipendente, facciata comunque estremamente importante. L’etnomusicologo statunitense Alan Lomax a seguito dei suoi accurati studi enunciava l’espressione:- “Ditemi com’è la musica di un certo popolo e io vi dirò com’è la sua organizzazione sociale” e la musica così come l’arte è la sintesi di memorie, processi, applicazioni e modi di fare di una comunità.
Il popolo dell’Arberia è una delle tante minoranze etniche e linguistiche presenti sul suolo italiano. Oltre agli albanesi si possono elencare i Ladini, gli Occitani, i Carnici, i Corsi, gli Ebrei, i Friulani, i Grecanici, gli Sloveni, i Curdi, i Mocheni, i Bosniaci, i Francofoni, i Walzer, gli Zingari e molte altre popolazioni stanziate nella Penisola.
La Legislazione italiana tutela le minoranze linguistiche e riconosce dodici comunità storiche parlanti idiomi diversi dalla lingua ufficiale dello Stato: albanesi, catalani, croati, francesi, francoprovenzali, friulani, germanici, greci, ladini, occitani, sardi e sloveni.
Vogliamo sottolineare ancora una volta che la diversità è ricchezza, soprattutto in quest’epoca dove a fronte di un facile accesso alle informazioni c’è chi preferisce limitarsi solamente ai ristretti perimetri del proprio pensiero.
Autore: Luigi Ferrara
Grazie a Michela Aprea per i contributi
Foto Copertina: Luigi Vaccaro
– – – Intervista a Max Fuschetto – – –
FO: Max la tua musica si sposa benissimo con le immagini, nel caso specifico di questo nuovo video sono perfettamente in relazione con panorami e scenari. Ricordiamo anche i tuoi lavori con Mario e Stefano Martone, Monica Mazzitelli. Considerando che oggi un’artista deve essere anche in grado di sviluppare degli aspetti multimediali, cos’è che rende perfetta la relazione tra audio e video?
MF: Credo che ogni trama sonora esprima un luogo e porti con sé una narrazione e delle immagini, immagini soggettive nel senso che mentre ascoltiamo un brano la nostra mente, la nostra immaginazione produce immagini. Poi c’è il livello emotivo, più profondo, per cui la musica, intesa nel senso contemporaneo di “suono”, produce emozioni: estasi, paura, affettività ecc. Così, le due forme di vita, l’arte costruita sul suono e quella dell’immagine, si incontrano realizzando paesaggi inediti a volte di forte impatto emotivo. Questo é accaduto con “Adriatico, il mare che unisce” di Cristiana Lucia Grilli.
FO: Come ti sei trovato a collaborare per questo video-documentario di Cristiana Lucia Grilli?
MF: C’è stata una ricerca, credo che Cristiana da eccellente regista e ricercatrice abbia compreso che la novità del suo lavoro, dalla scelta del soggetto, alla fotografia, al montaggio, al punto di vista originale, necessitava di una scrittura musicale contemporanea che recuperasse la tradizione senza sentimentalismi e creasse quella frattura tra antico e moderno che ogni opera d’arte deve mostrare.
Quando Cristiana ha ascoltato Sùn Nà (Audiogliobe), il mio lavoro del 2015, che contiene diversi brani scritti in collaborazione con la cantante arbereshe Antonella Pelilli, ha capito di avere di fronte quello che cercava. Il trailer di Adriatico, che parte con una immagine ripresa dall’alto del mare Adriatico che lambisce la terra e che si muove dinamicamente sulla ritmica in crescendo della chitarra elettrica di Quem ma tia (Portami con te), mi ha lasciato stupito per la forza e la bellezza.
FO: “È solo uno stereotipo che la musica africana coincida col ritmo. Tutt’altro”. Ti è capitato di citare l’etnologo e il musicologo Gerhard Kubik e più volte hai messo in evidenza la tua passione per le musiche africane e in generale sono riconosciuti i tuoi studi per la musica etnica. Come ti sei approcciato alla cultura arbereshe? Cosa ti ha spinto ad approfondire i loro componimenti? Da studioso, che cosa hai potuto rilevare della loro musica.
MF: Mentre studiavo la musica dell’Africa subsahariana, soprattutto attraverso il monumentale lavoro di Artur Morris Jones, grazie a Giulio Costanzo, leader delle Percussioni Ketoniche, mi trovai ad ascoltare per caso la cantante arbereshe Antonella Pelilli. All’epoca lei aveva poco più di vent’anni ma la voce (cantò un brano tradizionale senza accompagnamento) mi sembrò contenere risonanze che andavano oltre il tempo, ancestrali. E’ iniziata così una collaborazione che ci ha portato a reinventare la lingua arbereshe e a portarla nella contemporaneità. Grazie alla partecipazione di Andrea Chimenti, straordinaria voce del presente, abbiamo realizzato con Antonella in “Les Roses d’ Arbén” , una sintesi linguistica e musicale premiata con la presentazione del nostro lavoro all’Expo2015 nel padiglione albanese, grazie anche all’interessamento della studiosa delle tradizioni in lingua arbereshe Fernanda Pugliese.
Trovo che l’arberesh sia un punto di vista privilegiato da cui guardare le culture dell’Est e dell’Ovest: da quelle del medio oriente fino al fado portoghese e alla musica napoletana.
FO: Ai tempi di “Sun Nà” avevi già rivisitato anche la folk-song ‘Valle Valle’. Come hai trasformato il canto tradizionale – anche abbastanza “scuro” – ‘Bilbili’ in una composizione con caratteristiche quasi opposte e con un mood differente come ‘Si Trendafile’?
MF: Ho sovrapposto alla linea melodica di Bilbili (L’Usignolo), che poi è diventata Si Trendafile – le Rose – un arpeggio che si muove su scale simili a quelle delle tradizioni orientali, come ad esempio la musica dell’isola di Bali che ho studiato attraverso i resoconti dell’americano Colin McPhee.
In questo modo il canto ha sprigionato una prospettiva emotiva nuova, più libera, in cui la melanconia del canto si sfuma in un contesto sonoro che le appartiene solo in parte, come nella sua filiazione orientale e primitiva. Poi però naviga un mare nuovo, tocca isole nuove.
FO: “Le Rose di Arben” avranno degli sviluppi ulteriori, o il tutto sarà limitato a spettacoli e concerti dal vivo?
MF: Le Rose di Arben, con Pasquale Capobianco alla chitarra elettrica e Giulio Costanzo ai tamburi a cornice, oggi è un ensemble nato per la continua richiesta da parte degli operatori di uno spettacolo dal vivo che unisca la tradizione con le novità della nostra scrittura. Gli ultimi concerti, come ad esempio quello realizzato per il Festival Internazionale del ‘700 Napoletano, hanno fatto registrare il tutto esaurito. Il pubblico ci ha gratificati con una partecipazione senza precedenti. Sono in lavorazione alcuni video e delle registrazioni per un nuovo lavoro discografico. L’entusiasmo è forte.
– – – Intervista ad Antonella Pelilli – – –
FO: Dopo una fase di riscoperta di qualche decennio fa, la lingua arbereshe rischia di perdersi di nuovo con le nuove generazioni. Forse fino ad oggi è stato anche possibile mantenere delle tradizioni, ma con la diffusione della rete e la globalizzazione in fasi avanzate, quale futuro si prospetta?
AP: Gli stili di vita, le tradizioni sono cambiate in maniera evidente rispetto al passato ma noi siamo ciò che siamo stati e non possiamo dimenticarlo. Fare memoria è un modo per esprimere a noi stessi e agli altri chi siamo, chi vogliamo essere e in quale direzione desideriamo andare. Conoscere il passato ci aiuta ad amare quella parte di noi più intima, come le radici di un albero….cresciamo nel presente e siamo protesi coi nostri rami verso gli altri, verso le distanze dello spazio e del tempo…. Ciò che rimane a dare testimonianza è proprio la documentazione sonora, registrata, studiata e catalogata e diffusa con le nuove teconologie. Così, anche dopo decenni, è possibile ricostruire una dimensione sonora e con essa una visione globale di un dato paese. Noi possiamo solo augurarci di lasciare tracce di vita, tracce d’amore, trasportare sul pentagramma della consapevolezza le mille notte primordiali della nostra identità, armonizzare le melodiche testimonianze ed assicurare loro concerti nel teatro della vita.
FO: La musica è un’ottima opportunità per diffondere linguaggi e sviluppare nuovi interessi. Dalla tua esperienza di cantante come valuti l’interesse verso questa lingua e cultura da parte del pubblico o di chi ti ascolta?
AP: Io sono un’insider alla cultura in quanto i miei genitori sono originari di Montecilfone e hanno sempre parlato la lingua antica albanese; ma posso essere anche considerata un’outsider! Infatti ho scoperto, nel vero senso della parola, l’arberesh grazie alla musica tradizionale! All’età di 12 anni, attraverso un progetto di formazione di un gruppo folk portato avanti dalle mie ormai care amiche Fernanda Pugliese ed Ornella Cingolani. Abbiamo fatto conoscere il mondo arbresh anche a chi ne ero ignaro. Come in Umbria al concorso Inedito per Maria o ad Aulla in Toscana, dove Mogol, il presidente della giuria del “Premio Lunezia ” è rimasto particolarmente affascinato dal nostro mondo. Ma anche all’estero! Nel 2003 ebbi la possibilità di rappresentare gli arbëresh del Molise con una delegazione calabrese al “Columbus day” di New York ed anche lì, nel cuore della società multietnica, l’arbëresh scagliò una freccia. Nel 2006 partecipai al progetto Passaggi sonori ideato da Matteo Patavino, e conobbi il maestro Giulio Costanzo, il quale invitò il suo amico Max Fuschetto ad un convegno… Fu il viaggio del falco che incontrò la sua violetta a rapire l’interesse di Max Fuschetto, esattamente come aveva fatto con me da bambina! Così cominciò il connubio tra di noi…e sono più di dieci anni che le vesti sonore del compositore ricoprono con leggiadra e innovativa maestria i testi in lingua arcaica albanese, tratta sia dalla tradizione che dal mio cuore.
FO: Ururi, Campomarino, Portocannone, Montecilfone e in generale le comunità molisane certamente riescono a difendere con orgoglio le proprie radici. Cosa rimane invece del vecchio spirito albanese?
AP: L’idea di “identità” è un fatto psicologico nutrito di una forte componente sociale. Ciò che esiste aldilà del nostro orizzonte, le cose e le persone con cui siamo in contatto, sono percepiti come estensione del nostro essere. Si sviluppa così il senso di appartenenza ad un determinato luogo, ad una determinata cultura, ad una determinata etnia. E l’attività del fare musica, il gusto nel produrla e nell’ascoltarla costituiscono un ulteriore modo di rivelare ed esibire a noi stessi e agli altri chi siamo, con chi ci identifichiamo. Questo è quanto ho potuto analizzare nelle mie ricerche di etno musicologia contenute anche nella mia tesi di laurea. Il mio umile lavoro si è aggiunto agli studi che altre persone hanno condotto finora, in primis il prof. Matteo Di Lena, originario di Montecilfone.
Arbëreshë è lo spirito, l’identità di un popolo che ha lasciato orme nella memoria, fatta di garbate malinconie, fermi valori, forti sentimenti, infiniti sogni… L’antico è fresco ed attuale! L’arbëreshë vive ancora con orgoglio!
FO: Le altre comunità dell’Arberia sparse per l’Italia sono in collegamento tra loro? Praticano ancora gli antichi riti? Ci sono ulteriori differenze linguistico culturali?
AP: Nei miei viaggi, nei concerti, ho potuto constatare questo orgoglio di appartenenza all’antica stirpe albanese, soprattutto nelle comunità albanofone della Calabria, dove c’è più concentrazione. Come se le montagne avessero conservato i segreti dell’identità che anima ancora i riti. Esemplari sono le Vallje che vengono celebrate il martedì dopo Pasqua e che rievocano la vittoria dell’eroe condottiero Skanderbeg sugli invasori. Una festa accompagnata da canti e danze che riunisce “Gjaku shprishur”, il “sangue sparso”, così amano definirsi gli arbëresh. In realtà laddove si è conservato anche il rito greco-ortodosso, gli aspetti cerimoniali e la lingua sono più ancorate.
Oltre a questo antico rito, negli ultimi decenni si partecipa ad una grande fioritura di manifestazioni che ricongiungono i discendenti dell’Arberia dalla Calabria, dalla Basilicata, dalla Puglia e dalla Sicilia, come ad esempio il Festival canoro di San Demetrio Corone, in provincia di Cosenza, e che consentono alle nuove generazioni di rivitalizzare la propria tradizione anche attraverso una parziale influenza e contaminazione della popular music, e non solo. Un’apertura verso l’esterno come le trasformazioni legate ai nuovi repertori, quindi al cambiamento generazionale e al contesto esecutivo che ci porta al collegamento sottile con il cambiamento di sensibilità e con gli evoluti codici estetici. Rilevante anche l’attività di artisti e gruppi musicali (da Silvana Licursi di Portocannone a Spasulati Band di Santa Sofia d’Epiro-, dagli Hobo di San Costantino Albanese-Pz ai Moti i parë di Lungro-Cs fino a Dhëndurrit e Arberit di Piana degli Albanesi -Pa) che formulano proposte musicali diversissime, espressioni della propria cultura locale tradizionale contaminata da quella moderna.