Prima di ricevere una certa visibilità grazie alle collaborazioni con Mark Lanegan, scaturite nelle partecipazioni, in veste di prezioso partner musicale, sugli album Gargoyle (2017) e Somebody’s Knocking (2019) del cantautore statunitense, Rob Marshall (songwriter, polistrumentista e produttore britannico, in passato già membro degli Exit Calm) stava già mettendo in piedi il progetto Humanist. Anzi fu proprio a causa di questa eventualità che i due fecero conoscenza.
Tutto nasce dal fatto che Marshall stava architettando un modo per omaggiare Gavin Clark, cantautore e musicista inglese, scomparso tragicamente nel 2015.
Il caso volle che dopo aver visto “The Living Room” , un documentario sulla storia di Clark, il giorno seguente Marshall scoprì che era appena deceduto. Tra l’altro i due per un breve periodo ebbero anche lo stesso manager.
Una triste parabola che diede al buon Rob la spinta necessaria onde voler metter su un opera dai temi esistenziali e laceranti come egli stesso racconta “Vita, nascita, morte, religione, mortalità. Una posizione filosofica, che si interroga sul valore delle persone ed il senso dei rapporti umani … Riguarda la creazione contro l’evoluzione, il paradiso contro l’inferno, la tomba contro la vita eterna e come gli esseri umani reagiscono a questi concetti. È un disco su ciò che la speranza significa per tutti noi “.
Creato il concept e relative musiche Marshall ha coinvolto alcuni vocalist a cui sono state affidate gran parte delle liriche.
Dopo una breve intro strumentale si parte con la marziale Kingdom, affidata all’ugola cartavetrata di Mark Lanegan (unica presenza più copiosa nel disco, scelta quanto mai scontata vista la solida partnership fra i due).
Un leggero colpo di tosse apre la seguente Beast Of The Nation che vede i medesimi protagonisti arrovellarsi su di un riff chitarristico virulento e massiccio. “I took a train to nowhere…Nowhere is a place I’m gonna be” recita il refrain, la discesa agli inferi è appena cominciata…
Meno plumbea l’atmosfera che pervade Shock Collar , singolo dalle tinte new wave con testo di Lanegan, avente come protagonista Dave Gahan dei Depeche Mode.
Fa tutto da solo Marshall, invece, su Lie Down, brano mid-tempo dalle forti connotazioni mistiche. Decisamente meno accondiscendente l’incipit elettronico di Ring Of Truth, corredato da un simil spoken -word ad opera di Carl Hancock Rux (David Holmes, Portishead).
Toni foschi ma in salsa dark-rock si stanziano su Skull, il brano successivo dove è ancora Lanegan la voce trainante.
Poi è la volta di English Ghosts, a parere di chi scrive forse il pezzo migliore del lotto. Cadenze kraut condite dal moto circolare del basso, inserti della sei corde di Marshall che pian piano fanno salire la tensione creata dal lento salmodiare di John Robb (The Membranes). Can meets Suicide e ti passa la paura, forse…
E’ il momento, quindi, di In My Arms interpretata da Joel Cadbury (UNKLE). La partenza eterea viene spezzata nel mezzo dall’entrata della batteria, quasi a voler dare una scossa in un momento in cui i pensieri diventano tetri e l’unica consolazione è la ricerca di un contatto umano.
La successiva When The Lights Go Out con il cantante dei Ride, Mark Gardener, denota una forte impronta indie-pop di matrice albionica per un pezzo dove la paura di rimanere soli è a farla da padrone.
A spezzare la monotonia dell’uso di tante voci maschili ci pensa Ilse Maria e la sua Truly Too Late. Sorta di novella Elizabeth Fraser(Cocteau Twins) la nostra impreziosisce a dovere una ballata sullo scorrere del tempo.
Una chitarra e poco più sono la semplice ricetta alla base di How’re You Holding Up, dove il canadese Ron Sexsmith si interroga, malinconicamente, riguardo l’amicizia.
Di tutt’altro stampo Mortal Eyes. Unico episodio in cui interagiscono il recitativo di Carl Hancock Rux ed il cantato di Joel Cadbury, il brano è un urlo claustrofobico nei confronti della religione in genere e dei dubbi ad essa connessa.
Lo sgraziato ma efficace rantolo rauco di Jim Jones (Thee Hypnotics), a tratti assimilabile a quello di Greg Dulli (The Afghan Whigs , The Twilight Singers), mena le danze quando si affaccia Shoot Kill, penultimo e nerboruto passaggio in scaletta che pare sottendere al suicidio.
Il gran finale è riservato a Gospel. La canzone si apre con il breve campionamento di uno spiritual, avente quale motivo “I’m going home to live with God”. Dopodiché è Mark Lanegan ad entrare in gioco, creando un’intensa interpretazione di un immaginario dialogo tra un uomo sofferente e Dio. Lentamente il cantato si trasforma in un coro deflagrante, chitarra e batteria diventano sempre più lancinanti sino a raggiungere il climax per poi spegnersi pian piano.
Strano a dirsi, in un’epoca in cui si dibatte sulla valenza dell’idea di album, Rob Marshall dimostra che è ancora possibile creare un lavoro sulla lunga distanza omogeneo e significativo, evitando la semplice raccolta di brani sparsi, fini a se stessi.
Ed il rischio c’era, considerato il fatto che trattasi di un progetto “aperto” ad interventi esterni.
Humanist, al contrario, pur non essendo un disco dai contenuti facili in quanto a sonorità e temi trattati, ci ricorda quanto sia alto il potere della musica, ogni volta che è capace di condividere con gli altri le infinite inquietudini della sensibilità umana, facendoci sentire meno soli.
Perciò, specie in periodi complicati, tipo quello attuale, il consiglio migliore è sempre lo stesso: restiamo umani. Anzi, in questo caso, humanisti…
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autore: LucaMauro Assante