Mackenzie Scott, in arte Torres, ha solo 29 anni, ed è già al quarto disco, dopo tre successi osannati da Pitchfork, Metacritic, Rolling Stones e altre riviste americane. L’album d’esordio omonimo, Torres, e poi Sprinter e a seguire Three Futures avevano già mostrato l’eclettismo di questa cantautrice, che ha imparato a far di musica nella chiesa battista dove cantava nel coro locale.
E ascoltare Silver Tongue dà le stesse emozioni eclettiche dei primi dischi, tuttavia impreziosite da uno stile che ha trovato la sua definizione, grazie anche alla sapiente produzione di Rob Ellis. L’esordio, con Good Scare , che è anche il primo singolo tratto dall’album, ha già sapore di hit: sembra di ascoltare Kate Moss, o un Peter Gabriel al femminile, con una voce evocativa e potente che troneggia su un ritmo avvolgente di batterie. L’impressione è confermata da Last Forest, dove il cantato di Torres è analogamente appassionato, e i toni definiti dai synth sono quelli dell’epico-drammatico.
Torres esplora i sentimenti e il suo mondo interiore nei suoi pezzi, e la musica accompagna questa esplorazione in una forma che potremmo definire da melodramma, ma senza retorica e senza sbavature. Ascoltate Records of your Tenderness per esempio: è un canto spiritual, nell’esordio (che deve molto evidentemente alle atmosfere da chiesa in cui ha imparato il suo talento), che sembra voler evocare gli elementi naturali. Poi, a spiazzare tutto, arriva Dressing America, una ballata folk in chitarra elettrica, in cui la voce si fa soffusa e quasi sommessa. Dressing America è la perfetta canzone pop d’autore, dove i toni intensissimi e profondi delle prime tracce trovano un dolce attimo di riposo e respiro.
Ariosa ed epica anche Two of Everything, ed a questo punto del disco lo stile dell’album è chiaro e definito: anche qui la batteria scandisce possentemente il lirismo intenso della canzone, che trova il suo apice nel riff synth del ritornello.
Una chitarra ruggente introduce invece Good Grief: fin qui non un solo pezzo dove effetti e sintetizzatori non abbiano lavorato intensamente per modulare i suoni puri degli strumenti, segno di una ricerca accanita del suono perfetto, in cui Torres sembra avere un talento incredibile. Tutto è sovraprodotto, lavorato, ma l’album non ne risulta affatto viziato di artificiosità o inutile esibizionismo: al contrario, si muove lungo le 9 tracce come un confetto sonoro purissimo, senza sbavature, senza eccessi. A Few Blue Flowers ritrova ancora la batteria a fare da pista della canzone, ma stavolta su tempi più lunghi e sospesi. Ne nasce un altro semi-spiritual, che procede, specialmente nel finale, davvero come una preghiera. Un arpeggio di chitarra classica e un falsetto fin qui sotto utilizzato introducono Gracious Day, un’altra pausa in tono minore, ma non per questo meno ispirata e intensa, del disco. Che fino a qui è un autentico capolavoro, e la title track, Silver Tongue, non è da meno, e chiude degnissimamente questo disco tutto giocato su voce e controvoci e sulle atmosfere disegnate dagli strumenti, tutti sempre volutamente riverberati.
I fan italiani avranno una sola occasione di vederla, il 14 marzo al circolo della musica a Rivoli, presso Torino, ed è davvero un peccato perché un artista così non va lasciata sfuggire. Sperando in una ripresa nella parte estiva del tour, non rimane che godersela nei ripetuti ascolti, rigorosamente in cuffia, da godere possibilmente in solitudine e al buio.
Perché le canzoni di Torres non sono cupe ma hanno una intensità notturna che ne costituisce la loro più speciale magia.
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autore: Francesco Postiglione