La dodicesima avventura musicale dei Destroyer, quasi una one man band capitanata dal vancouveriano Daniel Bejar, è un disco pieno di rimandi a cantautori classici, da Leonard Cohen a Lou Reed a Peter Gabriel a David Byrne.
Accanto a Bejar (a chitarre, piano, synth e melodica), troviamo l’ultima formazione in ordine di tempo dopo tanti cambiamenti: Nicholas Bragg alla chitarra e alla produzione, John Collins ai synth. Il resto dunque lo fa la mente della band, quel talentuosissimo Bejar che insiste anche in questo ultimo disco, Have we Met, con quel cantato quasi parlato e soffuso, vagamente lamentoso, (esemplare e paradigmatico in questo senso l’esordio con Crimson Tide) che si avvicina più a una confessione attraverso la musica che non a un vero e proprio cantato: non a caso, pare che alcune vocalizzazioni siano state registrate in cucina di notte.
Il disco è molto concentrato, musicalmente, su effetti e synth, più che sul ritmo di batteria, quasi sempre derivato da loop elettronici: questo per incentivare il cantato in forma di monologo e il godimento delle parti musicali, in particolare della tastiera (come nel caso di Crimson Tide e di Kinda Dark, dove fa da strumento portante).
Un’anima più pop ha invece il singolo It just Doesn’t Happen, che comunque non rinuncia alle caratteristiche fin qui ascoltate: più tastiere che chitarra, e monologhi alla voce cantati quasi sottovoce. Ampio respiro arioso per The Television Music Supervisor, che con la sua apertura musicale quasi annuncia il pezzo centrale del disco, The Raven, che insieme a Have we Met, la title track, conducono questo ennesimo esperimento di Bejar direttamente dal pop d’autore al dream pop: l’uso dell’elettronica, dei loop, dei synth, infatti, approda direttamente verso le sponde di questo genere in queste due canzoni assolutamente sognatrici e melodiose, piene di fascinazione.
In particolare Have we Met è una pura tessitura strumentale, senza cantato, densa di melodia ariosa, quasi un quadro en plein air fatto di note musicali. Cue Sinthesizer è nel disco la canzone più vicina al Cohen tanto ammirato e citato da Bejar, una citazione che la band non poteva fare a meno di fare e ci sembra giusto così. Più sottotono University Hill e the Man in the Black Blues, ma il disco si riprende alla grande nel finale con Foolssong, dove Bejar tenta un cantato più melodico, su un tessuto musicale quasi orchestrale, epico, che sembra voler chiudere il disco con un colpo di teatro, quasi con retorica, come sottolineano i ripetuti e teatrali dan dan dan dan cantati da Bejar.
E la canzone sembra quasi chiudersi come un sipario, così come si chiude il disco, molto ispirato ed efficace, fra i più belli della recente produzione dei Destroyer che nella loro ormai più che ventennale carriera hanno attraversato diversi stili musicali, sempre alla ricerca del “segno” cantautorale.
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autore: Francesco Postiglione