di Marco Sica
Novelle per un anno … Lo storno e l’Angelo Centuno del 1910: il punto di partenza per “l’ultimo atto” (incompiuto) di Luigi Pirandello, “I Giganti della Montagna”.
L’opera, nella sua stesura come a noi giunta, fu elaborata tra il 1930 e il 1936 e incompiuta a causa della morte del drammaturgo avvenuta (appunto) nel 1936; la stessa completa idealmente il ciclo dei miti teatrali e si pone come quarto elemento di un’ipotetica tetralogia, ampliamento della trilogia del teatro nel teatro inaugurata da “Sei personaggi in cerca d’autore” (1921) e proseguita con “Ciascuno a suo modo” (1923) e “Questa sera si recita a soggetto” (1928-29).
Ed è così che tra le rovine di un teatro distrutto e sotto l’occhio pieno e notturno di una luna al plenilunio, è andato in scena al Mercadante “I Giganti della Montagna”, per la regia Gabriele Lavia, con la produzione della Fondazione Teatro della Toscana.
Oltre la realtà, oltre e dentro al sogno, seguendo i dettami dell’ultima opera incompiuta, il teatro si è fatto teatro per rivendicare, con le proprie miserie, la sua funzione portatrice dell’essenza dell’essere umano e della sua capacità di creare con il sentire ancor prima che con l’agire.
Se da sempre, nel passaggio dalla superstizione alla magia, alla religione, l’esigenza totemica dell’uomo ha divinizzato, nell’ipertrofia delle forme, il gigantismo, ecco che lo stesso, nella rappresentazione teatrale, diviene elefantiaca e paralizzante macchina del fare; in sua contrapposizione gli uomini dell’essere.
I giganti “sono gli uomini del fare, mentre il teatro è fatto dagli uomini dell’essere. Luigi Pirandello l’aveva capito molto bene. Perciò, ho voluto come scenografia un teatro distrutto. Distrutto perché ci vogliono costruire degli uffici per organizzare un teatro che non c’è, è morto, ucciso proprio dagli uffici” ha dichiarato Lavia.
Lì, dove gli “orli della vita si distaccano ed entrano i fantasmi”, è stata “inventata” una verità nuova, magica e forte nello smuovere le coscienze ma al contempo circoscritta in un palcoscenico incantato, sulle cui tavole si svestono le maschere di scena per abitarsi quelle vere dei volti che la coscienza stessa rifiuta; lì, dove si è “padroni di niente e di tutto”, è stata promessa una “libertà” per chi perdendo ogni cosa, finanche se medesimo, acquisisce il piacere e il valore del tutto.
“COTRONE. E io ho sempre inventate le verità, caro signore! e alla gente è parso sempre che dicessi bugie. Non si dà mai il caso di dirla, la verità, come quando la s’inventa ….
…. Lei, inventa la verità?
COTRONE. Non ho mai fatto altro in vita mia! Senza volerlo, Contessa. Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. Ne inventai tante al paese, che me ne dovetti scappare, perseguitato dagli scandali. Mi provo ora qua a dissolverle in fantasmi, in evanescenze. Ombre che passano. Con questi miei amici m’ingegno di sfumare sotto diffusi chiarori anche la realtà di fuori, versando, come in fiocchi di nubi colorate, l’anima, dentro la notte che sogna”.
Un allestimento capace di essere minimale nella sua grandiosità (grazie alle scene di Alessandro Camera, i costumi di Andrea Viotti, le musiche di Antonio Di Pofi, le luci di Michelangelo Vitullo, le maschere di Elena Bianchini, le coreografie di Adriana Borriello) ha fatto da coprotagonista al pari dei danzatori e dei mimi, quest’ultimi sublimati nei fantocci senza viso dell’arsenale delle apparizioni in apertura del secondo atto.In una privazione di definiti riferimenti spazio temporali, nelle musiche, nelle canzoni, nei miracoli e nel racconto dell’Angelo Centuno, la poetica ha, poi, trova assetto sull’esatte coordinate di una Sicilia mitica e ancestrale nel folclore e nelle tradizioni della terra.
“COTRONE (al Conte). Se la ajutano a entrare in un’altra verità, lontana dalla sua, pur così labile e mutevole… (alla Contessa) rimanga, rimanga così lontana e si provi un po’ a guardare come questa vecchietta che ha veduto l’Angelo. Non bisogna più ragionare. Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere. Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cangiarle. Disperazione a modo nostro, badiamo! Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche; naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente; e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi”.
Gabriele Lavia nel ruolo di Cotrone detto il Mago, una tanto carnale quanto diafana Federica Di Martino, Clemente Pernarella, Giovanna Guida, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Gianni De Lellis, Federico Le Pera, Luca Massaro, Nellina Laganà, Ludovica Apollonj Ghetti, Michele Demaria, Simone Toni, Marìka Pugliatti, Beatrice Ceccherini, Luca Pedron, Laura Pinato, Francesco Grossi, Davide Diamanti, Debora Rita Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia, sono riusciti a ben rappresentare la duplice dicotomia, dove il reale, il gigante è celato all’occhio e destinato all’immaginazione mentre il fantasmatico è rappresentato e dove resta inevaso l’interrogativo sulla necessità del teatro di vivere di sé e per sé o tra la gente.
“COTRONE. Ma sì! Che andate più cercando in mezzo agli uomini? Non vedete che n’avete avuto? ….
ILSE. Vuol dire che andrò io sola, a leggere, se non più a rappresentare la Favola. ….
COTRONE. Comprendo che la Contessa non può rinunziare alla sua missione.
ILSE. Fino all’ultimo.
COTRONE. Non vuole neanche lei che l’opera viva per se stessa – come potrebbe soltanto qua.
ILSE. Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini!
COTRONE. Povera opera! Come il poeta non ebbe da lei l’amore, così l’opera non avrà dagli uomini la gloria”.