di Marco Sica
In occasione dei cinquant’anni di Woodstock, caduti il 15 agosto, si è avuto modo di operare, su queste pagine, una riflessione (personale) che ha portato alla seguente conclusione: “Woodstock, forte del movimento giovanile alle sue spalle, sia stato un fenomeno commerciale e commerciabile nel suo divenire Spettacolo e quindi mercificazione, mistificazione e sofisticazione … con la caduta delle ideologie è venuta meno anche la Spettacolarizzazione alle stesse legate, rendendo così vedove le ultime due generazioni della capacità di pensiero collettivo e di “sincere” forme d’arte (musicale) da esse derivate che, sebbene prodotte, siano state capaci di imporsi all’attenzione dei media su vasta scala …” ; ciò partendo da quanto osservato da Guy-Ernest Debord nei suoi “Commentari sulla Società dello Spettacolo”.
Ed è sempre Debord che prosegue, in una denuncia della soppressione della storia, nell’affermazione che “Un potere assoluto sopprime tanto più radicalmente la storia quanto più sono imperiosi interessi od obblighi che ha per farlo … Lo spettacolare integrato l’ha fatto operando su scala mondiale. La sfera della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. Inseparabilmente, la conoscenza avrebbe dovuto durare, e aiutare a comprendere almeno in parte ciò che sarebbe successo di nuovo: ‘un’acquisizione per sempre’, dice Tucidite. In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità; e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla. Quando l’importante si fa riconoscere socialmente come ciò che è istantaneo e lo sarà ancora nell’istante successivo, altro e identico, e che sarà sempre sostituito da un’altra importanza istantanea, possiamo anche dire che il metodo usato garantisce una sorta di eternità di questa non-importanza, che parla così forte”.
Ebbene, il 29 ottobre e il 9 novembre sono ricorsi due punti nodali della nostra modernità, che perfettamente si allineano con il pensiero del filosofo e sociologo francese: i cinquanta anni della prima trasmissione dati tra due computer e i trent’anni della caduta del muro di Berlino.
Il 29 ottobre del 1969, accadeva, infatti, che due computer, siti rispettivamente presso l’Università della California di Los Angeles (Ucla) e lo Stanford Research Institute di Palo Alto, al secondo tentativo, comunicarono tra loro “Login” (al primo fu trasmesso solo “Lo”); il tutto all’interno della rete Arpanet, un progetto voluto da un’agenzia del dipartimento della Difesa Usa: l’Arpa (Advanced Research Projects Agency).
Il 9 novembre 1989, invece, segna il giorno in cui il governo tedesco-orientale, a mezzo del Politburo della SED, ufficializzò la riapertura delle frontiere con la repubblica federale, decretando la conseguente caduta del muro di Berlino e con essa la fine dell’ideologia comunista post rivoluzionaria.
Orbene, è indubbio che entrambi gli eventi abbiano avuto un forte impatto storico/sociale che ha riverberato le proprie conseguenze non solo sui canali precipui (ed esclusivi) della comunicazione, ma anche sull’arte e le sue forme espressive, ivi compresa la letteratura e la musica.
Oggi, viviamo una contemporaneità in cui la musica e la scrittura, hanno (nella maggior parte dei casi) perso due dei cardini su cui da sempre hanno posato le fondamenta: il pensiero che è alla base dell’atto creativo e la solidità della forma che ha loro consentito per secoli di perdurare e costruire, con la memoria, storia e cultura.
In sostanza, si può affermare che è venuto meno l’atto fideistico sul quale edificare le fondamenta della nostra cattedrale artistica. Nella vacua fugacità di un post si dissolvono gli attimi creativi di poetica, narrativa e riflessione … che, persi nella rete, naufragano in un indefinito oblio di coscienze prive di un passato da poter conservare e ricordare.
Non si può sottacere come Zygmunt Bauman abbia affermato che “… il portavoce di Nietzsche, Zarathustra, lamentava gli indugi del presente che minacciano di far ‘scricchiolare’, gemere e schiacciare la Volontà sotto il peso dei sedimenti spessi e pesanti delle conquiste e delle azioni scellerate del passato. La paura di ciò che è troppo solido per poter essere smantellato, di ciò che resta anche quando non è più gradito, di ciò che lega le mani e impedisce i movimenti o, come Faust, andrebbe anche all’inferno pur di rispettare gli impegni, la paura di commettere il madornale errore di voler fermare un bel momento affinché duri per sempre, è stata ricondotta da Jean-Paul Sartre alla nostra viscerale, atemporale e innata avversione al contatto con sostanze viscide o vischiose; e tuttavia, è sintomatico che solo alle soglie dell’era liquido-moderna quella paura sia stata indicata come una delle principali spinte propulsive della storia umana. In realtà, essa era il segnale dell’arrivo imminente della modernità, e la sua comparsa può essere considerata un vero e proprio spartiacque storico, paradigmatico nel senso più pieno del termine”.
Su una medesima linea di sintesi tra il pensiero di Debord e quello di Bauman, si colloca la congiunta riflessione di Michael Hardt e Antonio Negri contenuta ne “Lo spettacolo della costituzione” del loro Impero: “Il campo di battaglia che sembra emergere da questa analisi sparisce comunque molto rapidamente se chiamiamo in causa i meccanismi con i quali le reti ibride vengono manipolate dall’alto. In effetti, il collante che tiene insieme le funzioni e i corpi della costituzione ibrida è ciò che Guy Debord chiamava spettacolo – un complesso dispositivo integrato e diffuso costituito da immagini e da idee, il quale produce e regola le opinioni e il discorso pubblico. Nella società dello spettacolo – che, un tempo, poteva ancora significare una sfera pubblica – gli spazi dello scambio politico e della partecipazione si sono completamente dissolti. Isolando gli attori sociali nelle loro automobili e davanti a schermi video separati gli uni dagli altri, lo spettacolo distrugge qualsiasi forma di socialità collettiva e, nello stesso tempo, crea un nuovo genere di socialità di massa, un nuovo tipo di uniformità dell’azione e del pensiero”.
Tornado, dunque, al tema principale della nostra trattazione, è di palmare evidenza come la caduta del muro di Berlino sia coincisa con un progressivo affievolimento, su scala globale, di qualsivoglia ideologia (indipendentemente dal tenore politico o sociale della stessa) capace di essere strato e sub – strato ispiratore di significanti movimenti artistici deputati a dar forma e voce alla stessa.
Al contempo, le maglie della ragnatela globale, dalla propria prima tessitura Arpanet, passando per il Transmission Control Protocol (TCP) e l’Internet Protocol (IP) del 1980, giungendo sino al World Wide Web pensato (ironia della sorte) nel 1989 e attuato nel 1991, hanno intrappolato le forme espressive e comunicative che, in un contrappasso funzionale, hanno stretto in isolamento i propri utenti.
Se da un lato si è avuta la convinzione di un progressivo azzeramento delle distanze, l’avvicinamento operato è stato una morsa asfittica che ha mistificato la percezione di un progresso comunicativo e divulgativo a cagione e in favore di un narcisistico individualismo.
È il dividi et impera messo in atto dalle corporazioni di potere le quali, impossibilitate a muovere ed erigere anacronistici confini geografici, hanno tracciato le loro linee direttamente intorno ad ogni singolo individuo, mascherando la vanità di un vuoto e istantaneo pensiero con il falso messia di una globalizzata libertà espressiva.
Libertà espressiva che ha (in modo indotto?) sollecitato e giustificato un’ipertrofia produttiva ai limiti della deiezione massificata d’illusorie singolarità, tali da generare caos in overloading d’informazioni e in overdose di sistemi drogati pronti a esplodere dal loro stesso interno nell’annichilimento delle coscienze.
Libertà espressiva che ha marcato di agorafobia gli spazi aperti e comuni della dialettica, per rintanarsi nel fondo della caverna platonica e in una claustrofilia che dell’altro e della realtà concede solo la virtuale percezione.
E così, in un magmatico e indefinito flusso costante di liquida espressione, anche l’arte e la musica, al pari di un post o di uno scatto virtuale, scivolano obese, sovradimensionate, in sovrannumero, senza la forza di un pensiero che le faccia allignare e nel tempo stratificare, permettendo loro di assumere l’ancestrale valore totemico urgente per la salvezza dell’uomo e della sua identità, pietra d’angolo sulla quale costruire una storia carica di contenuti che da clanica narrazione diventi, nella sua solidità temporale, universale linguaggio di riferimento e di confronto.