C’erano una volta i White Stripes, ovvero Jack e Meg White, e un album eclatante, Elephant, con una canzone dal riff indimenticabile di successo mondiale, Seven Nation Army, consacrata anche dal tifo da stadio ai mondiali del 2006.
C’era una volta Jack White, fondatore dieci anni fa di due supergruppi, con gente del calibro di Queen of Stone Age, Greenhornes, e Kills, e musicista solista e poliedrico, collaboratore di The Walker-White Trio, The Soledads Brothers, The Hentchmen, The Detroit Cobras, Whirlwind Heat, Beck, Brendan Benson, per dirne alcuni, e produttore discografico.
C’era una volta e c’è sempre lui, Jack White, ancora pronto a dividersi fra le sue due creature, the Dead Wheather e i Raconteurs, ancora con la faccia da ragazzino benché abbia compiuto da poco 44 anni, ancora con la voglia di divertirsi con la musica facendo esattamente quel cavolo che gli pare, vivendo nella finzione della totale libertà artistica e musicale, come lui stesso racconta nella bellissima Live a Lie, estratta da questo ultimo disco dei Raconteurs, la band fondata da lui a Detroit con Brendan Benson.
Con i due a dividersi chitarre e voce, anche per questo ultimo disco, Help Us Stranger, ritroviamo Jack Lawrence (The Greenhornes, Blanche e Dead Weather) al basso e Patrick Keeler (The Greenhornes) alla batteria. La vera notizia non sta quindi nel rimescolamento della formazione, ma nel fatto che i quattro tornano a incidere musica nuova insieme dopo ben 11 anni dal secondo disco Consolers of the Lonely del 2008, e 13 dall’album d’esordio Broken boy soldiers, che si aggiudicò il Grammy come miglior esordio rock.
Le reminiscenze seventies di Jack White sono ben note dai tempi dei White Stripes, ma in questo disco sembra vogliano coniugarsi il più possibile col garage rock più moderno e soprattutto con l’indie, un genere sempre più dirompente nelle divagazioni musicali di White.
Certo White non rinuncia a citare musicalmente i suoi miti (la prima traccia, Bored and Razed cita i Led Zeppelin nel riff iniziale ma anche nel titolo, alludendo alla mitica Dazed and Confused) ma già nella titletrack Help Us Stranger la commistione indie si sente parecchio. Only Child invece è una ballata senza tempo sul classico tema del fuorilegge figliol-prodigo, come senza tempo è il tributo a Hey Gyp (Dig The Slowness) di Donovan. Somedays, Shine the Light on Me e Thoughts and Prayers, ballate quasi heavy metal, molto affabili al suono e accattivanti, sono due pezzi in cui maggiore è l’influenza dell’altra mente del gruppo, Brendan Benson, mentre Now that You’re Gone è un tributo ai classici anni ’50. Rimangono, a indicare la dirompenza dello stile unico di White, Don’t Bother Me, Sunday Driver e What’s Yours is Mine, che, sebbene in una convenzionale impostazione da rock anni ’70, mostrano tutta la loro filiazione dall’esperienza White Stripes. Sunday Driver e l’intro di What’s Yours is Mine citano esplicitamente Led Zeppelin e affini, ma il ritornello lobotomico di quest’ultima e di Don’t Bother Me vi faranno ricordare senza dubbio certi passaggi di Elephant. Caso unico poi è il ritmo forsennato di Live a Lie, canzone manifesto del disco, per il quale si ritorna all’indie rock più potente.
Ci si può divertire quanto si vuole a trovare discendenze, influenze, citazioni ed ispirazioni, e quando si tratta di Jack White è anche un bel divertimento perché la sua musica esce sempre magicamente dalla sua chitarra già come dotata du una storia, un passato, un tributo da evocare.
Ma è anche giusto rivendicare l’assoluta freschezza di questo disco (non possiamo dire originalità totale, ma per le ragioni dette), che esce pronto di produzione dai Third Man Studios di Nashville, prodotto da Joshua V. Smith, con la collaborazione dell’immancabile Dean Fertita (The Dead Weather, Queens of the Stone Age) e delle sorelle Scarlet e Lillie Mae Rische.
E poiché White ama fare tutto da solo o quasi, il disco è registrato nei suoi studios e prodotto dall’etichetta da lui fondata, la Third Man Records, come per i precedenti. Anche questo è un manifesto di assoluta libertà artistica e musicale, che il figlio prediletto dei Seventies a quanto pare intende portare avanti ancora a lungo, sempre giocando fra i suoi supergruppi e le sue mille e mille collaborazioni e produzioni artistiche. Lunga vita a Jack White.
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autore: Francesco Postiglione