Prima con la Kitsuné, poi con la Parlophone Records, adesso, per il quarto album, con la Play it Again Sam: quattro album per (quasi) quattro etichette diverse, questa la storia discografica dei Two Door Cinema Club, al secolo Alex Trimble (voce, chitarra, beat, synth), Kevin Baird (basso, synth, cori), Sam Halliday (chitarra, cori), la band nordirlandese che all’epoca del 2007 con il singolo What You Know aveva in qualche modo contribuito alla definizione del sottogenere Indie Pop, assieme a Kooks, Kings of Convenience e pochi altri. Tourist History era il nome del primo disco, assolutamente fresco e godibile, assolutamente indie, a cui è seguito nel 2012 Beacon e poi il deludente Gameshow nel 2016. Si sentiva forse nell’aria la necessità di un rinnovamento della formula, ed ecco qui False Alarm, un altro disco godibilissimo di dieci tracce dove però il riff semplicissimo, ammaliante e immediatamente riconoscibile dei pezzi dell’esordio si trasforma in qualcos’altro, una base decisamente più disco e funky, come si comprende già dalla seconda traccia, Talk, che segna subito il passaggio di rinnovamento.
Once, il pezzo che apre il disco, è infatti ancora nello stile delle canzoni a cui il trio ci aveva abituato: ma Talk esordisce subito con batteria elettronica e “tastiere da discoteca”. Satisfaction Guaranteed prosegue lungo la scia, in maniera addirittura eclatante: riff di chitarra se ne sentono pochi, e sembra di ascoltare un gruppo dance. Se volevano stupire, o forse anche scioccare, ci sono riusciti perfettamente.
“Questo nuovo disco suona come dei Two Door Cinema Club che in realtà non avete mai sentito prima”, riconosce Trimble, ed è assolutamente vero. L’indie pop fa non uno ma tre passi indietro, a favore di atmosfere dance, anni ’80, come nel singolo Satellite, decisamente eighties, piene di elettronica e con poca chitarra suonata. Questo non significa necessariamente regressione o fallimento: False Alarm è scorrevole, piacevole, godibile, come la musica dei TDCC fin qui conosciuta. Semplicemente, non sembrano loro: si avvicinano ai loro pezzi più tradizionali Once, Nice to Meet You, Already Gone, So Many People, ma gli innesti di tastiera ci sono anche qui e sono arroganti, come in So Many People (vi evocherà sin troppo da vicino Inner Smile dei Texas), mentre Think e Break sono addirittura irriconoscibili rispetto ai loro standard.
Un discorso a parte merita il secondo singolo Dirty Air: si cerca di mescolare la dance anni ’80 con chitarre più dirompenti e un ritornello addirittura indie rock, e ne viene fuori un pezzo di influenze composite, che diventa sicuramente la traccia più interessante del disco, senz’altro la più sperimentale.
In sostanza, in questo disco la volontà di svoltare è evidente, addirittura eclatante e ostentata: forse troppo, e questo è il suo difetto principale. Chi amava i riff mai dirompenti, ma sempre delicati e poppeggianti dei primi dischi, si troverà deluso, ma potrebbe però apprezzare nuove intessiture di melodie con una enormità di strumenti in più, primi fra tutti le tastiere e le basi elettroniche. Più sfumature e meno freschezza, insomma, se si volesse riassumere in una formula facile. All’ascoltatore l’ardua sentenza
autore: Francesco Postiglione