Dentro il Giffoni Film Festival 2019 – Cronache dalla cittadella del cinema
Autrice: Michela Aprea
Giorno 1, Venerdì 19 luglio – Una lunga fila, quasi un corteo solenne, è il benvenuto alla cittadella del cinema di Gubitosi (Claudio, ndr). Poco prima soltanto gruppi sparuti di case e verde, inerpicati lungo i fianchi del monte Licinici. Sono genitori in fila per entrare nel parcheggio della cittadella.
Sono le 14, i ragazzi residenti qui e nelle immediate vicinanze (il raggio massimo è di 20 km) hanno lasciato le sale per fare spazio a quelli che vengono da fuori.
Il cielo è azzurro, nell’aria c’è un’energia frizzante e frenetica. Bimbi dalle maglie azzurre o verdi o amaranto corrono per prendere posto, entrare all’intero delle sale, sicuri davanti a madri e padri sorpresi. Disorientati, non già dalla mancanza di informazioni, quelle arriveranno immediatamente, ma dalla libertà e dall’indipendenza tanto auspicata a casa che, ora, si sta detonando davanti ai loro occhi spauriti.
Generazioni di “choosy”, considerate amebe prive di vita, destinate al consumo acritico di prodotti e di esistenze personali, spezzano le catene di smartphone e iper connettività varia per guardarsi, toccarsi, giocare, stare insieme, fare bolle di sapone, visionare film, ovviamente, e ascoltare dibattiti, incontrare “very important people“, certo, suonare e cantare e stare all’aria aperta del parchetto Pepsi (sic!), mettendo cosi gli adulti di fronte alla più oscena delle verità: no, questi ragazzi non sono senza ideali, senza sogni e desideri, non sono senza voglia di vivere o forza di farlo, ma soltanto costantemente privati della libertà di vivere il loro Tempo. Per quello che è. Finché ce n’è.
Un paradosso a pensarci, in un contesto dove bambini di ogni età si ritrovano a rispettare un’agenda iperdefinita, giornate super organizzate, senza scampo. Basta un’assenza e il giurato è fuori, gli è (giustamente) negato il diritto di giudicare il complesso delle opere e di eleggerne la migliore. Nessuno si lamenta, qui hanno ben chiaro l’impegno che si è preso e ad ogni modo viene costantemente ricordato dall’apparato colossale della macchina del festival. Una macchina ipercontrollata che, però, in nessun caso dà l’idea di essere finiti in un terribile Panopticon.
Quello del Village è un immenso spazio di libertà, dove ragazzini, tutti con lo stesso zaino in spalla e maglie dello stesso colore, si ritrovano in gruppo per assegnare un colore diverso alle città sognate (“Londra è blu. Invece Barcellona, guarda per me è… arancione, sì arancione!” si confidano due adolescenti alle mie spalle), contrattare un ingresso all’incontro con Alessandro Borghi in cambio di una generica “L’amica geniale”, osannare gli “iPantellas” o giocare a “Ninja”, un gioco spassosissimo tra le belle statuine (in posizioni ninja) e “Pu, passa Paperino”. Sarebbe bello parlarci con quei ragazzi, chiedergli cosa pensano di questo o di quello cosa li ha portati fin qui, sopra i Monti Picentini a mezz’ora di distanza da Salerno e i suoi localini, i pub, il lungomare. L’interazione qui al GFF è la norma, i ragazzi sono costantemente chiamati a partecipare e allora basta solo mettersi lì in ascolto durante una delle frequentissime interviste, proposte poi ogni giorno attraverso il canale Instagram del festival, osservarli per un po’ e guardargliele in faccia tutte le loro motivazioni. Qui è il paradiso, una zona franca di vitalità assoluta di cui è difficile non innamorarsi.
Di fronte al bar, sugli spalti dell’arena, centinaia di genitori aspettano la fine del turno dei loro bambini. Mentre crocchie di ragazzi più grandi, delle categorie 13 e 16+, si addensano e fluiscono al ritmo delle onde. Alcuni si sentono famosi: “La mia faccia è stata utilizzata per la copertina Facebook”, dice una, trattenuta da due mamme curiose di sapere “chi è ‘sto Woody Harrelson?” a cui un cameraman e il suo assistente hanno chiesto loro un attimo prima di dare il benvenuto.
Qui, è impossibile nascondersi, l’autorità del Giffoni Experience rende noto con una targa che “l’area è soggetta a video sorveglianza e a riprese video”. Ed è un miracolo non farsi fermare dai cameraman e dai giornalisti per un’intervista. Il festival, diventato ormai soprattutto experience ha bisogno di essere narrato, per autoalimentarsi.
Tanti i ragazzi stranieri, non si contano quelli provenienti da tutta Italia, ormai alla loro terza, quarta esperienza. Una giornalista, non si capisce se di una testata o se una delle tante persone deputate ad alimentare il Moloch di Giffoni, intercetta un ragazzo indiano accompagnato da un coetaneo, dall’evidente accento napoletano. Gli chiede di intervistare il suo amico e in un attimo si compie la magia.
Qui tutti sono parte dell’incanto, senza alcuna distinzione di sorta. Solo i ragazzi del posto, inservienti certosini che tengono perfetto il tutto, sono ai margini del sogno, sembrano impercettibili, sono invisibili. Proprio come i topolini di Cenerentola servono solo a farla la magia, restando poi fuori dal resto.
Sono quasi le sedici, è ora di riavvicinarsi alle sale per recuperare ciascuno il proprio “giurato più bello del mondo”, come ha correttamente affermato la speaker all’entrata. Il percorso è obbligato da una piccola rassegna tra gli stand: tante le istituzioni: la regione Campania, la polizia postale, la guardia di finanza; e poi gli spazi occupati dalla Google, dalla Panini Comix, dalla Pimpa e da tanti altri ancora.
In fondo, una struttura lunga, soprannominata “il cannocchiale”. È lì che c’è la centrale operativa del “festival più necessario”, come lo definì una volta François Truffaut, giunto nel piccolo comune salernitano oramai quasi quantant’anni fa, nel 1982.
Quanti ancora avranno ribadito quella frase, in quanti occhi quella bellezza risplende raggiante.
La sera è una girandola di spettacoli, performance e musica. Anche quest’anno il parterre è ricchissimo. Nomi che piacciono ai ragazzi, certo, ma che fanno cantare anche adulti e bambini. È la grande festa della musica contemporanea, quella che (magari) fa storcere il naso ad amateur e musicofili di professione e che però è assolutamente popolare.
La Maschera, Anastasio, Mondo Marcio, Shade, Boomdabash, Arisa, Daniele Silvestri e poi Mahmood, sono gli idoli che ogni sera, dalle 22, si esibiscono sul palco di Giffoni. Concerti per tutti, aperti a tutti, in una festa democratica e popolare e anche questo è un altro dei tasselli della magia del GFF.
Una folla si assembra davanti alla sala Galileo, piove già da un po’ e le esili tettoie telate, messe lì come parasole, si trasformano in perfide bombe d’acqua: il tempo di caricarsi e “buum!” Ecco che parte il gavettone!
Mamme e papà corrono verso l’ingresso, si assembrano sotto il piccolo tetto a guscio, come se in cerca di riparo, assediati dal fuoco nemico.
La calca è fitta, a farne le spese i teneri fiori ai lati. Compare una speaker a ridare giustizia a quelle creature delicate, a fare ordine e chiedere ai genitori collaborazione. “State per riunirvi alla giuria più bella del mondo”, ricorda.
Eh già, e la sicurezza non è mai troppa!
Solo per stavolta sarà consentito recuperare i piccoli entrando in sala. Già domani non sarà più possibile. Soltanto chi è munito del parental access, fisico, di carta, – non è accettata la sua riproduzione in immagine digitale -, potrà entrare e riunirsi alla propria adorata prole. Gli altri, i furbi che hanno lasciato il tutto nello zainetto del giurato o che hanno dimenticato il pass, dovranno aspettare. Ci saranno gli accertamenti del caso.
Continua a piovere e trovare un riparo è impossibile, troppe le aree impedite, l’ingresso è riservato solo a chi ha il pass apposito. Non resta che tornare agli stand, provare a ripararsi lì, lasciarsi affascinare dall’abilità di Ennio Sitta che, animatore dello spazio riservato alla Panini Comix, incanta bambini e adulti con acrilici, bombolette di vernici spray e stencil.
A un ragazzino dai tratti orientali disegna una donna, una giapponese, con un bel fiore di loto viola tra i capelli. La stessa donna che tiene raffigurata sulla maglia, che onore! È tutta una profusione di “Oohh”, di batti il cinque, di felicità e foto. Mai, sia chiaro, senza prima il consenso dei genitori (continua…).
Giorno 2, Sabato 20 luglio – Il secondo giorno a Giffoni la magia non svanisce. Si è di nuovo lì come innamorati, certi di un’unica necessità: quella di viversi a pieno questa storia.
Il disorientamento è un sentimento sciocco che pure, però, di tanto in tanto si presenta. A segnare la via sono gli altri, le indicazioni scarne, mappe e percorsi guidati un’utopia, e così raggiungere la sala Galileo non è un gioco da ragazzi se ci si attarda con gli stand e gli altri genitori sono tutti fluiti via.
La sala si trova in una grande struttura al fianco del “cannocchiale”: è tra quelle mura affossate lungo i fianchi della piccola valate che accogglie il Village, che si tengono alcune delle masterclass e degli incontri. È lì, soprattutto, che è ospitata la sessione dedicata ai genitori. Che sia di mattino, di pomeriggio o anche di sera, agli accompagnatori adulti è concessa la possibilità di partecipare al festival e non sentire troppo la mancanza dei propri pargoletti.
Di giorno, nella struttura che insieme alla sala Galileo, ospita anche le sale Blu e Verde- Grimaldi Lines, è prevista la rassegna “Parental Experience”. I titoli proposti sono: “La paranza dei bambini” (19 luglio), dall’omonimo bestseller di Roberto Saviano, per la regia di Claudio Giovannesi; “Un giorno all’improvviso” (20 luglio) di Ciro D’Emilio; “Il viaggio di Yao” (21 luglio) di Philippe Godeau, “Madonne Fiorentine” (22 luglio) di Alessio Clemente; “Cafarnao – Caos e Miracoli” (23 luglio) di Nadine Labaki; “Girl” (24 luglio) di Lukas Dhont; “Il campione” (25 luglio) di Leonardo D’Agostini e, infine, venerdì 26 e sabato 7 luglio, il ciclo di cortometraggi con: “Adam’s Kirt” di Clement Trehin Lahanne; “The Hedgehog’s Dilemma” di Francesca Scalisi; “Just me and you” di Sandrine Brodeur- Desrosiers; “Mother and Milk” di Amy Lindholm; “Piggy” di Carlotta Martinez Pereda; “Silkworms” di Carlos Villafaina; “Skin” di Guy Native e, ancora, “Big Wolf & Little Wolf” di Remi Durin; “Bruised” di Rok Won Hwang; “Dad” di Atle Blakseth; “Like and follow” di Tobias Schiage; “Paper Kite” di Assia Kovranova; “Saul and Ivan” di Rebecca Akoun; “White Crow” di Miran Miosic; “Zibilla” di Isabella Favez. I cortometraggi, in concorso, vedranno i genitori nelle vesti di giurati.
Sorte che toccherà pure a quanti, per questioni di turno, affolleranno la sala di pomeriggio.
Per questi c’ è la rassegna GexDoc: un documentario al giorno con produzioni provenienti da ogni parte del modo. L’ingresso è libero, la priorità dei posti riservata ai genitori dei piccoli giurati della sezione ELEMENTS, e cioè i 6+.
Tanti i documetari proposti: da “In my blood it runs” di Maya Newell a “Bruce Lee and the outlaw” di Joost Vanderbrug, “In the name of your daughter” di Giselle Portenier e “The heart of a doll” di Antonio Di Domenico.
E per quei genitori che possono raggiungere i piccoli e il festival solo di sera? C’è la rassegna “Beatiful Minds” con i titoli: “Shine”, “A beautiful Mind”; “Frida”; “Van Gogh- At eternity’s Gate”; “The Theory of everythhing” (per informazioni più dettagliate consultate il programma).
Senza dimenticare gli eventi speciali, aperti a tutti i prenotati, con le proiezioni in anteprima, di norma nella sala Truffaut, di: Man in Black: International (19 luglio), La rivincita delle sfigate (20 luglio); Tolkien (21 luglio); Teen Spirit (22 luglio); Dolcissime (23 luglio); Il re leone (24 luglio); Alla fine ci sei tu (25 luglio); Shazam (26 luglio).
Riuscire a riservare un posto online è esperienza eroica, almeno ad ascoltare le decine di genitori assembrate davanti all’infopoint del festival, tutti con la stessa domanda: “Come è possibile che alle 17.57 il sito per le prenotazioni si oscura è alle 18.02, quando ricompare, i posti disponibili sono tutti esauriti?”. Misteri dell’iperconnettività! Una cosa è certa, il GFF prova a non scontentare mai nessuno e quelli di buona volontà possono sempre provare a mettersi in fila e sperare in un posto last minute.
Mai perdere le speranze, appunto. Ne sa qualcosa l’ospite che ha aperto la rassegna dei Gexdoc. Si chiama Benedetta De Luca, è una giovane avvocata salernitana, influencer dalla forza unica, tanto da aver stregato quel “geniaccio” di Chiara Ferragni.
Disabile, una malattia rara l’ha costretta a 18 interventi e a 12 anni passati in un letto d’ospedale, Benedetta è un’attivista per i diritti delle persone con disabilità. Racconta con garbo ed estrema forza non la sua storia di dolore, – atti di bullismo subito, specie da quegli adulti, insegnanti e funzionari che avrebbero dovuto supportarla -; ma il suo personalissimo percorso di presa di coscienza dei propri diritti, di conoscenza della nostra Carta costituzionale e di quell’articolo 3 che impone allo Stato e ai cittadini italiani l’impegno comune per la rimozione degli ostacoli che impediscono a tutte e tutti di esercitare parimenti i diritti di cittadinanza.
La Costituzione è lo scudo di questa giovane donna straordinaria, proprio come sua madre (ma avere dei genitori forti troppo spesso non basta, avverte!) quella che – racconta la giovane influencer e avvocata salernitana – le ha sempre ribadito: “Io ti ho dato la spada, Ora tocca a te difenderti”.
Benedetta porterà in autunno alcune delle modelle più cool dello scenario internazionale, per una sfilata, che si terrà proprio a Salerno, realizzata con il supporto di Chiara Ferragni.
Sulla sua catwalk avanzeranno top model e mannequin, tutte disabili, che faranno luce sul complesso caleidoscopio dell’umanità e dimostreranno che la bellezza è prima di tutto nel riconoscere all’altro il diritto di essere così come è.
Diritto che è negato al popolo aborigeno in Australia come ci racconta il primo dei documentari presentati dalla rassegna Gex Doc: “In my blood it runs” di Maya Newell (Australia, 2019, 84’). Protagonista è il piccolo Dujuan, aborigeno di lingua arrernte, costretto dal governo australiano in una riserva nel nord, ad Alice Springs.
Dujuan è un bambino della sua età, ha appena dieci anni, che proprio come un moderno Pinocchio, o un indomabile Lucignolo, vuole semplicemente restare fedele a se stesso, libero dalle costrizioni degli adulti, che la società impone. Sa benissimo chi è: “Sono un bambino aborigeno – dichiara proprio nell’incipit del documentario – e ciò significa che ho una memoria, una storia che scorre nelle mie vene”.
Una storia che racconta di poteri guaritori, di un prossimo ritorno nella terra di origine, di cespugli dalle piante dal nome intraducibile, note soltanto al suo popolo e dalle proprietà magiche.
Una vicenda che dice dei continui soprusi subiti dal suo popolo: la libertà degli australiani è fondata sull’oppressione dei nativi, costretti ad imparare una storia non loro, a vivere in riserve dove l’uso di alcol e droga per troppi è la norma e a subire il paradosso di vedere pure riconosciuti i propri diritti (a conoscere la propria lingua, a tornare quando possibile nella terra d’origine) ma come puro atto di concessione formale, senza nessuna facoltà sostanziale.
Durjuan si sente oppresso, vuole tornare nella sua terra di origine, terra di libertà e identità. Rischia più volte il riformatorio, luogo dove i minori indigeni, nel territorio settentrionale il 100% dei bambini in carcere è aborigeno, subiscono violenze e vessazioni, inenarrabili, sconosciute a gran parte del mondo occidentale.
“Vorrei tornare nella mia terra ma voglio che i miei nipoti vadano a scuola, così conoscono il sistema all’interno del quale vivono” dice nana Carol durante una delle tante interviste che inseguono la vita di Durjuan, fino alla decisione finale: il rischio del carcere è ormai una certezza e al piccolo non resta che raggiungere il padre Jim Jim a Borroloola. La sua colpa? Il desiderio di essere se stesso.
”Io desidero solo essere me stesso: un aborigeno” afferma Durjuan alla fine della pellicola, mentre si alternano le immagini presenti e passate del popolo aborigeno in protesta. La storia è vera, come l’impegno della famiglia del piccolo e di tanti nativi nella difesa dei diritti degli aborigeni.
Di diritti e della necessità di farsi partigiani in loro difesa hanno parlato anche Gianna Fracassi, vicesegretaria nazionale CGIL, e don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, durante un toccante incontro che ha seguito la proiezione del cortometraggio “Tonino” (di Gaetano del Mauro, da un’idea di Aldo Padovano), dedicato alla vita di Antonio Esposito Ferraioli, cuoco e sindacalista Cgil ucciso dalla camorra il 30 agosto 1978 a Pagani (SA).
L’evento ha visto la partecipazione attenta del pubblico dei ragazzi presenti che hanno chiesto di “farne tanti di incontri così, per informarci, renderci consapevoli”. “Sono i i miei ragazzi, quelli della masterclass”, ha affermato, fiero, il patron Claudio Gubitosi che, dopo aver firmato il protocollo “Giffoni per la responsabilità e la legalità“, sottoscritto dall’ente autonomo Giffoni Experience, Libera, Flai Cgil e Fondazione Polis, ha annunciato la prossima celebrazione del cinquantenario del GFF a Tokio.
All’uscita dalla sala immergersi nella folla è come imboccare la corrente giusta. Tutto segue il suo flusso. Da un lato quelli che vanno, dall’altro quelli che vengono. E in mezzo? In mezzo c’è Spongebob, a mandare tutti i piccoli in visibilio (continua…).
Giorno 3, Domenica 21 luglio – Poi arriva la domenica e lungo la strada non c’è un’anima viva. Tra una curva e l’altra si ripropongono “educatamente” uno dietro l’altro, prima la pasta al forno, poi le polpette e, infine, i peperoni.
Sono le due, ci sono quaranta gradi all’ombra e l’auto è un forno crematorio.
Alle 14,30 lo spazio antistante la sala Lumiere, in genere gremito, è vuoto. Bambini alla spicciolata fluiscono nella sala, come tanti piccoli rivoli formati da una pioggia improvvisa. Intorno è il deserto. I Gexdoc propongono una produzione inglese-olandese-polacca. Il film “Bruce Lee and the Outlaw” di Joost Vanderbrug ha il sapore di un bacio tanto agognato eppure mai dato.
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Eh già perché al terzo giorno succede che lasci il tuo pargolo all’orario concordato e ti dirigi come un razzo alla sala Galileo felice di gustare il tuo nuovo e già irrinunciabile documentario. E proprio mentre ti illudi di aver già conquistato il tuo posto in sala, il languore è spezzato dallo sguardo duro di un cerbero, dalle fattezze di una ragazza esile e garbata. Dura come una novella signorina Rottermaier, quella ragazza è lì allo scopo di svegliarti dal sogno e spalancarti a forza gli occhi: “La sala è piena, non si può entrare”, dice con fermezza, lasciando un folto gruppo di genitori a protestare lì davanti a suoi piedi, mentre dentro la sala sta per compiersi la magia e altri genitori e adulti e bambini e ragazzini, entrano ed escono manco fossero a casa propria. Chi ha un marito, chi una moglie chi uno zio ad occupargli il posto e allora via a gruppi di quattro o cinque violare l’ingresso; chi ha bisogno di una bottiglietta d’acqua, chi ha da fare la pipì, chi scuote la testa e l’abbiamo capito tutti che proprio non tornerà, ma nessuno dell’organizzazione, men che meno quell’inesorabile controllore, si prende la briga di chiedere conto della dipartita di ciascuno di essi e allora, va da sè che nessuno degli astanti si muoverà.
Non c’è speranza per quanti sono rimasti fuori. Intanto, la rabbia tra gli esclusi monta mentre altri, attaccati al cellulare, continuano a fare i comodi propri: entrano con arroganza, davanti alla guardia a senso unico, aprono la porta, c’hanno i parenti in sala, si accomodano,- forse-, il tutto sotto lo sguardo attonito di quegli altri, quelli che i parenti dentro non ce li hanno e manco un conoscente o un cristo qualunque a cui appellarsi.
“Chiamate il responsabile della sicurezza!” tuona uno degli esclusi e la timida volontaria (il cerbero intermittente) ormai sfranta dalle proteste, non esita a farlo.
Dopo un po’ compare un ragazzotto ingenuo. Esordisce dicendo che la sala è piena dalle ore 14, meritando le strali degli astanti.
“Non è giusto!” si ribellano quelli rimasti fuori. “Noi abbiamo la priorità. Siamo genitori degli ELEMENTS. Mo che facciamo? Dove andiamo?”.
Intanto continua ad entrare gente, fomentando la frustrazione.
Il film è cominciato. Qualcuno va via. Quegli altri, quelli rimasti, entreranno mezz’ora dopo. Il documentario? Bellissimo!
Peccato non essere rimasti ad aspettare.
Anche se. Anche se andrebbe impedito l’accesso a proiezione cominciata. Del resto che senso ha fare di un festival per ragazzi, il più necessario, una mera rassegna filmica se lo scopo principale non resta quello di celebrare la cinematografia? Va da sé, allora, che entrare in sala è come varcare la soglia di una chiesa.
Ma al di là delle posizioni ideologiche (e ideali), resta un problema: che fare ora che l’ingresso è interdetto? Il caldo è torrido,le aree all’ombra occupate da folle di genitori in attesa, ragazzini che giocano e flirtano o semplicemente si godono il tempo che passa.
Più in là, davanti alle sala lounge della multimedia valley, padri premurosi aspettano sotto il sole per lasciare il posto a ignare figlie trafelate. “Che c’è?” fa una di queste. “Eh, non lo so”, risponde il povero genitore che, intanto, si guarda intorno in cerca di supporto.
Le ragazze si fanno sempre più frementi, fa caldo e probabilmente hanno altro da fare, ma resta la curiosità di un incontro potenzialmente magico. È da questo edificio che esconi molti dei Vip prima di dirigersi verso la passerella del blue carpet.
“Signora”, si decide a chiedere quel papà, con chiaro accento siciliano, a una donna accanto a lui, “chi sono questi che vengono fuori?”.
” Quelli di Strange Things”, risponde la sconosciuta, subito seguita dalle ragazze in coro: “A pà c’hai fatto venire per questi?”.
La situazione si fa torrida, non resta che provare ad uscire dal Village, entrare in un bar e aspettare.
Tornati nello spazio del GFF è un boato ad attirare l’attenzione. Sono Natalia Dyer e Charlie Heaton, gli attori di Strange Things, le star della giornata (continua…).
Giorni 4 e 5 – Lunedì 22 e martedì 23 luglio – Il quarto e il quinto giorno accade l’inevitabile: è lunedì e per molti genitori il rientro al lavoro e alla vita di sempre è una strada segnata. Non resta che aspettare la sera e con essa i racconti dal vivo del proprio Giffoner o illudersi di essere ancora tra le braccia della Valley guardando una delle numerose dirette sui molteplici canali attivati dal festival: che sia il sito internet, Facebook o Instagram stare fuori dal GFF è davvero impossibile!
L’evento speciale dedicato agli ELEMENTS è la presentazione di un nuovo personaggio, protagonista dell’ultimo film dedicato alla serie cult “Shaun, vita da pecora”. I bambini hanno conosciuto Farmageddon, protagonista dell’omonima pellicola, diretta da Will Becher e Richard Phelan, in uscita a settembre.
“Phantom Owl Forest” dell’estone Anu Aun racconta di una bambina sola, i genitori sono sempre al lavoro, affidata ad uno sconosciuto che scopre essere suo nonno. La piccola, durante la sua permanenza, incontrerà e difenderà un gufo, di una razza ormai in estinzione, la cui vita è compromessa dalla decisione di abbattere gli alberi che formano il suo habitat.
Bimbi soli, destinati alle cure dei genitori e della tecnologia mobile sono il fil rouge di molti dei film proposti, sicuramente nella sezione ELEMENTS.
A non mancare, pure stavolta, sono i genitori pronti ad affollare la sezione Gexdoc. Una sala gremita ha accolto Giselle Portenier e il suo “In the name of your daughter”. Donna dai modi gentili, la pluripremiata giornalista e documentarista canadese, impegnata nella difesa dei diritti umani di bambini e ragazzi, ha intervistato pattuglie di genitori, chiedendo loro da dove provenissero e cosa pensassero del festival. In una babele di parole in inglese biascicate e improvvisate, con qualche incursione supportata da padronanza, quei genitori incalzati hanno poi scoperto nella donna affascinante e gentile incontrata davanti all’ascensore la regista del documentario in sala.
Hanno scoperto poi anche un violento acquazzone, diradato nel giro di poche ore.
Il martedì è stata giornata di grandi eventi, tra i micioni pelosi di “44 gatti“, le “Winx” (che hanno fatto arrabbiare un po’ di maschietti) e i ragazzi del “Club 57″.
“The heart of a doll ( Cuore di bambola)” di Antonio Di Domenico, il film presentato nella sezione Gex Doc. Il tema affrontato, quella della disabilità. Di Domenico porta sullo schermo la storia di Veronica Tulli, in arte Lulu Rimmel. Cantante affetta dalla “sindrome delle ossa fragili” la giovane si esibisce nelle vesti di una bambola cantante sul palco del Freak Show e di altre manifestazioni della scena underground romana (continua)…
Giorno 6 – Mercoledì 24 luglio – Oggi è mercoledì e un grande sciopero del settore del trasporto pubblico realizza la condizione ideale per passare una nuova giornata al GFF.
Si vocifera che si aggirino per la cittadella Edoardo Leo e Stefano Fresi, voci di uno dei film evento della quarantanovesima edizione: il rifacimento de “Il re leone” di Jon Favreau in uscita il 21 agosto.
Ma ci sono altre due personalità attese dal grande pubblico: Stefano Accorsi, un vero e proprio giffoner, a cui è stato consegnato il “Premio Experience Award”, e l’attrice Lucia Ocone che ha incontrato i giurati della categoria ELEMENTS +10.
Dalla sala Lumiere frotte di bambini escono entusiaste. In tanti vociferano di aver visto il migliore dei film. “Un dieci sicuro” confabulano tra di loro. Parlano di “Rocca changes the world” di Katja Benrath (qui il link alla recensione).
La protagonista è una ragazzina undicenne dal nome altisonante e un vissuto degno di una moderna Pippi Calzelunghe. Riuscirà a salvare il mondo? Il suo, sicuramente.
L’entusiasmo dei bambini fa a cazzotti con il documentario proposto dalla rassegna GexDoc.
“Little Germans” di Frank Geiger e Mohammad Farokmanesh è un pugno nello stomaco. Il feroce ritratto delle più aggressive angosce delle contemporaneità e non basta il ricorso all’animazione ad attutirne il colpo.
“È la prima volta che un pubblico non tedesco o austriaco guarda il film. Sono molto interessato alla vostra reazione” ha affermato Frank Geiger, presente alla proiezione. Chissà se pensava al movimento Pro-vita, al Congresso delle famiglie di Verona, ai ministri Fontana e Pillon, al neofascismo portato al governo dalla Lega e all’avanzata di Casa Pound. Chissà se la sua curiosità era legata anche e soprattutto alla percezione che il pubblico in sala aveva (ha) di sé e di quanto accade nel proprio paese. Una percezione che gli spettatori, a seguito della proiezione non hanno rilevato, mostrando interesse più verso gli aspetti “produttivi” dell’opera: come ha fatto a portare sullo schermo quei personaggi, quanto la storia reale fosse inventata, e, infine, un panegirico sulla scelta del ricorso all’animazione.
Un documentario importantissimo, “Little Germans”, che racconta di quanto il seme del nazismo non sia stato debellato. Di quanto esso è ancora diffuso in luoghi insospettabili, come nei piccoli paesi di campagna o di montagna. E cioè lì dove è più facile sfuggire al controllo delle istituzioni.
E così la storia della piccola Elsa è emblema della storia di migliaia di infanzie negate. Bambini di cui non si conoscono nomi e cognomi, educate fin dalla nascita a inneggiare il Fuhrer, o odiare gli ebrei, a simulare la guerra e costruire le condizioni per il ritorno del nazifascismo.
Il documentario descrive un fenomeno, quello delle famiglie nazi, a partire da una storia vera. Quella della piccola Elsa (il nome è di fantasia), morta a 4 anni, perché i genitori hanno deciso di non somministrargli l’insulina che le era necessaria. “Nella loro impostazione ideologica – ha spiegato Geiger – proprio come per gli animali, solo gli organismi più forti hanno il diritto di vivere”. Ergo, se il corpo non è in grado di reagire che perisca. Poco conta se si tratta di tuo figlio.
Nella trasposizione di Geiger e Farokmanesh, Elsa è una bambina cresciuta nell’adorazione del nonno, ex ufficiale SS, educata al nazismo e alla dissimulazione del proprio pensiero nei luoghi pubblici, a partire dalla scuola. A 18 anni sposa un capetto, un galletto dal petto largo, cresciuto a pane e violenza. “Il nostro primo impegno – dice Elsa durante il racconto – era quello di avere quanti più figli possibile per la madrepatria”. Non accadrà: il meccanismo s’inceppa quando Elsa dà vita al suo secondogenito, affetto da una disabilità.
Quel bambino sarà fonte di imbarazzo per la scalata politica del marito e avrà ripercussioni anche su di sé, sul suo essere una donna cresciuta nel nazismo, messo a dura prova dai suoi sentimenti di madre e di moglie, afflitta da un compagno sempre più violento prima verso gli immigrati, poi anche verso la famiglia.
I due registi alternano i momenti di fiction a interviste a filonazisti, impegnati nel ritorno del regime. Testimonianze di un male che ancora esiste, che è sotteso nella società, non ancora visibile in tutta la sua gravità e che opere importanti come “Little Germans” contribuiscono a smascherare e contrastare.
Presentato durante la 69esima edizione della Berlinale, nella sezione Lola, realizzata in collaborazione con la German Film Academy e dedicata ai film di produzione tedesca, “Little Germans” è un film che ha ghiacciato il pubblico in sala, mettendolo di fronte all’orrore di un incubo che può ancora tornare (continua…)
Giorno 7 – Giovedì 25 luglio – Il giovedì già comincia ad aleggiare la tristezza. Per molti ragazzi domani sarà l’ultimo giorno, in pochi resteranno fino al sabato. In giro è tutta una profusione di abbracci, selfie, qualche lacrima già, in mezzo a baci a stampo, poco importa se sulle guance o sulle labbra. A consolare ci sono i telefonini e a distrarre pure, che qua spazio per le facce mogie proprio non ce n’è. Una coppia di ragazzi si aggira nel parco Hollywood (meglio noto come Pepsi!). Chiamano a raccolta gruppi di ragazzi a filmare promesse, arrivederci, abbracci. E’ tutto così vero e commovente che verrebbe voglia di consolarli uno ad uno ‘sti ragazzini.
La poesia è interrotta da un boato. E’ Alessandro Borghi, atteso da una marea di adolescenti e bambini e, soprattutto, mamme in visibilio.
Quelli in prima fila sono tutti armati di taccuini, pronti a strappare anche un suo autografo. L’attore, struggente nella sua interpretazione di Stefano Cucchi in “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, è spassosissimo e si concede generosamente al pubblico in una profusione di selfie e autografi.
Nulla di paragonabile alle “amiche geniali” Ludovica Nasti ed Elisa Del Genio, ospiti del blue carpet di ieri, insieme ad un parterre fittissimo (per saperne di più, leggi la cronaca di mercoledì).
Le due sagome delle ragazzine, inghiottite dalla folla ammassata sulla passerella, lasciavano intravedere tutta la fragilità del loro essere star in nuce.
Una timidezza, corazzata da spavalderia che lasciava trasparire tutta l’essenza infantile e per nulla affettata e siderale di Ludovica ed Elisa.
Borghi ha presentato alla Masterclass l’ultimo film da lui interpretato, “Il primo re”, per la regia di Matteo Rovere. Ha raccontato al pubblico delle fatiche inenarrabili subite, in nome della veridicità storica del film. Nel fango, in mezzo alle serpi, a maneggiare armi dal peso disumano, sofferenze come quello patite dagli spettatori del documentario proposto dalla sezione GexDoc: “Angels are Made of light” di James Longley.
Ambientato in Afghanistan, il documentario racconta del passaggio dalla vecchia scuola ricavata in una moschea distrutta dai bombardamenti su Kabul, in una nuova struttura, finanziata dagli stranieri.
Sullo sfondo scene di vita quotidiana, i volti degli alunni, l’impegno, il privilegio di andare a scuola in una società dove l’infanzia è negata, la povertà è la norma e la distruzione è una triste e affezionata compagna; la fatica dei genitori e di un’esistenza ancora precaria insieme alle testimonianze dei maestri e il loro ricordo delle stagioni passate di un Afghanistan che è stato libero, pure moderno, nonostante l’oppressione di una religione che in quella cultura è l’insegnamento. A sottendere il racconto e a tenerlo insieme come una sottile trama, frammenti di attesa continua, per quello che sarà oltre che per le prossime e imminenti elezioni.
Giorno 8- Venerdì 26 luglio– Penultimo giorno. I bambini e i ragazzini si affollano agli orari prestabiliti, pronti ad essere accolti nelle rispettive sale. Hanno facce lunghe e le braccia pure: sono propaggini molli di spalle incredibilmente ricurve. Sembrano cartoni animati, sagome in liquefazione e invece no, sono i giffoners, sotto il peso della consapevolezza che la magia sta per esaurirsi. Oggi voteranno per l’ultima volta, poi certo domani ci saranno anche i cortometraggi da premiare, ci sarà il gala finale con i vincitori, i festeggiamenti, ma si tratta di una gioia effimera, che non riesce a consolare.
L’ultimo film in gara nella sezione ELEMENTS +6 è “Adventures of Saint Nicholas” di Semen Gorov (Ucraina). Ancora una volta sono protagonisti due bambini lasciati soli da genitori incasinati, senza lavoro e pure infortunati. I piccoli eroi della pellicola saranno alle prese con un terribile criminale, ai più noto come “Il cinghiale”, un tipo che ha avuto il barbaro coraggio di rubare gli abiti a San Nicola.
La Gexdoc propone, invece, un interessante documentario: “Who’s Romeo” di Gianni Covini. La pellicola racconta, in atti, del laboratorio teatrale che ha visto protagonisti quattro ragazze e quattro ragazzi, alle prese con “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. A fare da sfondo alla narrazione, al racconto delle prove, dei sentimenti e delle vicende di ciascuno dei protagonisti, il quartiere Stadera, nei pressi di Gratosoglie, un’area a maggioranza musulmana nella periferia sud di Milano.
“Who’s Romeo” è un’opera toccante, importante, resa stupefacente dalla generosità con cui i protagonisti (Marilyn Adjalo, Valentina Bogdan, Leonardo Carralero, Assala Chahhoub) si sono donati allo schermo prima e agli spettatori poi. Poco più che adolescenti, attraverso lo studio del testo teatrale, guidati da Valentina Malcotti (attrice che guida i ragazzi nello studio della pièce shakespeariana), gli otto fanno i conti con sé stessi, con il proprio vissuto, con i pregiudizi, i limiti, le paure, le esperienze, la famiglia e i sentimenti pure.
Un progetto, “Who’s Romeo”, che ha visto la luce grazie a suor Elisabetta del centro culturale Asteria che ha prodotto l’opera.
A convincere la suora l’idea di paragonare la vicenda dei Montecchi e Capuleti alla questione della diversità culturale e della convivenza tra civiltà e sensibilità differenti. “I Montecchi e Capuleti sono come musulmani e cristiani? Cosa significa innamorarsi del proprio nemico? Chi è nemico?” sono alcuni dei grandi interrogativi posti dal film. Un’opera toccante, che molto deve ai suoi protagonisti.
Ragazzi come quelli che hanno partecipato all’ultima masterclass Music &Radio, tenuta da Gianni Valentino, giornalista (La Repubblica, il Venerdì, D donna, tra le altre testate) e autore del volume “Io non sono Liberato” edito da Arcana edizioni.
L’incontro, guidato da Mattia Marzi di Rockol, si è rivelato un avventuroso inseguimento sulle tracce di quello che resta il più interessante fenomeno musicale italiano del momento. Gianni Valentino ha raccontato ad una folta e attenta platea del suo viaggio, armato di taccuino, suole e connessione internet, alla ricerca della verità su Liberato. Un’indagine che è stata prima di tutto un percorso di ricerca giornalistica, mosso da una necessità: non tanto quella di risalire all’identità di Liberato, pure se Valentino ha la sua certezza, ma quella di storicizzare il più grande dei fenomeni musicali italiani del momento.
“A Napoli succedono tante cose, ma restano ignorate” racconta l’autore ai ragazzi in platea. Liberato no, è stato un successo immediato, una macchina in grado in poche ore di moltiplicarsi ed espandersi in maniera spropositata, mettendo in crisi – alle basi – l’intero sistema di produzione musicale italiano e, si giurerebbe, non solo.
Un brand fortissimo, il frutto di un’operazione di marketing mefistofelica e perfetta, ma non solo, è quanto c’è dietro al fenomeno Liberato.
Davanti c’è la musica, soprattutto, e un incredibile intreccio di vite, collaborazioni, segreti.
Il tutto amalgamato dal “deus in machina”, colui che ne ha plasmato il mito, dando forma all’immaginario che lo sostiene, lo foraggia, lo nutre, quel Francesco Lettieri senza del quale Liberato non sarebbe mai stato Liberato.
Un fenomeno che funziona, transgenerazionale, che “piace a genitori e figli” assicura Valentino, e attinge dalle viscere più intime di Partenope: un po’ “Era e’ maggio”, un po’ “A me me piace a Nutella”, scorrazzando giù fino a Mergellina, magari partendo dalle case dei Puffi o dal Bronx fino ad arrivare a Capri e all’immaginario un po’ Dolce & Gabbana incarnato da Elvis Esposito, il Marcello Solara de L’Amica geniale, e la sua bella Marì nell’ultima saga “Capri – Rendez Vous”.
Il fenomeno Liberato finirà? Come tutte le cose probabilmente. Forse è già finito, lo sfizio di quattro guaglioni che volevano rivoluzionare “o’ sistema” della produzione musicale italiana. E ora che “o vulio” è passato, si passa avanti. Ma per adesso, finché la barca va, meglio lasciarla andare a suon di pop up store e vendita di gadget, magliette, insomma, di tutto ciò che non è esclusivamente musica. Per tutto il resto ci sta internet, qualche concerto e, soprattutto, “ ‘a voglia ‘e fa paria’ ” (continua…)
Ultimo giorno- Sabato 27 luglio- L’arrivo alla cittadella, stavolta, è quasi immediato. Il caldo è pressante, alimentato dalla solitudine intorno. Si vedono poche anime in giro, bimbi e bimbe tengono i genitori per la mano, qualche sparuto gruppo di ragazzi è accampato nel parco Pepsi a scambiarsi i numeri di telefono. Fa caldo, sono quasi le 12.00 e a breve verranno replicati i cortometraggi per i bambini che provengono da regioni e paesi oltre i 20 km di . “Big Wolf&Little Wolf” di Remi Durin; “Bruised” di Rok Won Huang e Samanthe Tu; “Dad” di Atle Blackseth; “Like and Follow” di Tobias Schiage e Brent Forrest, “Paper Kite” di Assia Kovranova, “Shaul and Ivan” di Rebecca Akoun, “White Crow” di Miran Miosic, “Zibilla” di Isabelle Favez i cortometraggi sottoposti al vaglio dei giurati delle sezione ELEMENTS +6.
Gettonatissimo “Like and Follow” di Tobias Sclage e Brent Forrest. Protagonista un bambino preso a guinzaglio dallo smartphone. ”Un cortometraggio molto educativo che insegna ai bambini che non devono stare troppo attaccati al cellulare perchè altrimenti non guardano la trealtà” hanno commentato alcuni piccoli critici usciti dalla sala Lumiere. Senza mai staccare gli occhi dal loro dispositivo smart.
Il vincitore lo scopriranno soltanto di sera, durante la cerimonia finale. Stessa sorte toccherà ai genitori invitati ad esprimere la propria preferenza tra i cortometraggi: “Anne” interessante esperimento di Stefano Malchioldi e Domenico Croce dove in maniera originale sono intrecciati piani temporali ed effetti stilistici differenti. La narrazione è combinata con innesti in animazione e materiali apparentemente d’archivio dando forma ad un’opera estremamente interessante sul piano formale ed estetico, ispirata alla storia vera di un bambino americano, James Leininger, ma con pesanti incongruità nella narrazione.
“Brother (Baradar)” di Beppe Tufarulo racconta in maniera toccante e coinvolgente della vicenda reale di due fratelli afgani (magistralmente interpretati da Nawid Sharifi e Danosh Sharifi). Fuggiti dalla guerra e dall’orrore che ancora attraversa il loro paese d’origine e giunti in Turchia, Mohammad, il più grande dei due, si prepara per raggiungere l’Europa. Alì dovrà aspettarlo fino a quando non si determineranno le condizioni per ricongiungersi. Il film, è tratto da una storia vera, quella di Alì Ehsani,raccontata nel libro edito da Feltrinelli “Stanotte guardiamo le stelle”.
Il tema della migrazione è centrale in molte delle opere presentate e in qualche modo anche al centro del cortometraggio di Emanuele Aldovandi “A typical name for a poor child”, che tratta il tema in maniera volgare, arida di pensiero e di sensibilità, lasciando prevalere un linguaggio pacchiano e stereotipato, figlio della peggiore stagione televisiva italiana e di quella cinematografica pure.
Non fanno meglio “Pupone” di Alessandro Guida, sulle vicende del povero Sasha, ragazzo cresciuto in casa famiglia che con la maggior età è costretto ad abbandonare la struttura, penalizzato da una sceneggiatura carente; “Ground Floor” di Natalino Zangaro, pure incentrato su una vicenda borderline quella di una detenuta incinta che evade grazie al supporto di un’amica; “Matilde’s First Day” di Rosario Capezzolo e, soprattutto, “La regina si addormenta dove vuole” dove i temi della violenza contro le donne e della senilità non potevano essere trattati in maniera più superficiale.
La platea del Gexdoc ha premiato “Brother (Baradar)”.
E gli altri vincitori? Di seguito l’elenco delle opere che hanno conquistato il prestigiosissimo Gryphon Award e gli altri premi messi in palio dagli sponsor e dai partner della 49esima edizione del GFF:
ELEMENTS +3: Gryphon Award – Miglior Cortometraggio a “THE MOST MAGNIFICENT THING” di Arna Selznick (Canada).
Il film film guadagna anche il Premio Speciale – PREMIO “WOW” per “la sorprendente capacità di raccontare la tenacia e la perseveranza di una bambina che realizza, con fantasia e un po’ di incoraggiamento, la COSA PIÙ GRANDIOSA MAI COSTRUITA”.
ELEMENTS +6: Gryphon Award – Miglior Film a ROCCA CHANGES THE WORLD di Katja Benrath (Germania)
Gryphon Award – Miglior Cortometraggio: ZIBILLA di Isabelle Favez (Svizzera)
Premio Speciale – PREMIO COMIX (per il trailer più divertenTEEN) a ADVENTURES OF SAINT NICHOLAS di Semen Gorov (Ucraina) per il trailer esilarante.
ELEMENTS +10: Gryphon Award – Miglior Film a TEACHER di Siddharth Malhotra (India)
Gryphon Award – Miglior Cortometraggio a THE SCHOOL TRIP di Salvatore Allocca (Italia)
Premio Speciale – ORIGINAL MARINES AWARD a YOU’LL NEVER WALK ALONE di Xu Geng (Cina) per “l’approccio poetico e al tempo stesso concreto adoperato nella narrazione, perché è una storia di formazione capace di emozionare e far riflettere, ricca di passione, amicizia e coraggio, tutti elementi in linea la filosofia del brand”.
Premio Speciale – PREMIO CONSORZIO DI TUTELA DELLA PASTA DI GRAGNANO I.G.P. a ROMY’S SALON di Mischa Kamp (Paesi Bassi) per “la capacità della protagonista di non arrendersi di fronte agli imprevisti, per la sensibilità nell’adattarsi alle problematiche della convivenza quotidiana, per la tenacia nel mettere l’amore al di sopra di ogni difficoltà”.
Premio Speciale – TIM VISION AWARD ad ALONE IN SPACE di Ted Kjellsson (Svezia) perchè “per i due ragazzi soli nello spazio, in viaggio verso un nuovo pianeta in cui vivere, la tecnologia rappresenta l’unico modo per rimanere connessi al loro passato, per conservare la memoria e per cercare un nuovo possibile futuro”.
Premio Speciale – AMNESTY INTERNATIONAL AWARD a NEW NEIGHBOURS di Andrea Mannino, Sara Burgio, Giacomo Rinaldi (Italia) “per aver trattato il tema dell’intolleranza razziale in modo semplice e leggero così da poter essere veicolato a tutte le età e per il messaggio finale che nessuno è davvero immune al pregiudizio e che, tuttavia, sono spesso i bambini che riescono a guardare oltre ed esserne liberi.
Il Premio è dedicato a Lorenzo Cerrato, attivista di Amnesty Italia prematuramente scomparso nel 2018.
GENERATOR +13: Gryphon Award – Miglior Filma BLINDED BY THE LIGHT di Gurinder Chadha (Regno Unito)
Premio Speciale – TOYOTA AWARD a A COLONY di Geneviève Dulude-De Celles (Canada) perchè “la protagonista rimane salda nelle proprie convinzioni, nonostante le difficoltà e la diffidenza del mondo che la circonda, dimostrando che nulla è impossibile”.
Premio Speciale – PREMIO CGS (Cinecircoli Giovanili Socioculturali) – “Percorsi Creativi 2019” a MY NAME IS SARA di Steven Oritt (USA/Polonia) “perché il film pone in primo piano lo scenario delle persecuzioni razziali antiebraiche nel corso della seconda guerra mondiale ambientando la storia nel poco citato contesto ucraino, rappresentato realisticamente da un paese di campagna popolato da gente comune”.
GENERATOR +16: Gryphon Award – Miglior Filma GIANT LITTLE ONES di Keith Behrman (Canada)
Premio Speciale – GRIFONE DI ALLUMINIO – PREMIO CIAL (Consorzio Imballaggio Alluminio) PER L’AMBIENTE a TOO LATE TO DIE YOUNG di Dominga Sotomayor (Cile/Brasile/Qatar) “per il racconto scelto dalla regista che, nonostante si riferisca ad un periodo storico lontano nella memoria, si rivela fortemente attuale. In un Paese, il Cile, che sta vivendo una profonda trasformazione sociale, politica e culturale, la natura diventa lo scenario dove i tre giovani protagonisti sapranno ritrovare la strada per affrontare il futuro”.
GENERATOR +18: Gryphon Award – Miglior Film aTHE PLACE OF NO WORDS di Mark Webber (USA)
Gryphon Award – Miglior Cortometraggio a SONG SPARROW di Farzaneh Omidvarnia (Danimarca)
GEX DOC Gryphon Award – Miglior Film aIN THE NAME OF YOUR DAUGHTER di Giselle Portenier (Canada/Regno Unito/Tanzania). Il documentario conquista anche il Premio Speciale – AMNESTY INTERNATIONAL AWARD, dedicato a Vera Manco, attivista di Amnesty Italia prematuramente scomparsa nel 2019, con la seguente motivazione “per l’accurata regia che colpisce nel profondo raccontando sia l’atrocità delle mutilazioni genitali femminili, sia la speranza e il coraggio che caratterizzano le giovani donne protagoniste e chi se ne prende cura, oltre che per aver sottolineato l’importanza del diritto all’istruzione e alla conoscenza come massima forma di emancipazione.
PARENTAL EXPERIENCE (International) Gryphon Award – Miglior Cortometraggio a SKIN di Guy Nattiv (USA)
PARENTAL EXPERIENCE (Italy) Gryphon Award – Miglior Cortometraggio a BROTHER di Beppe Tufarulo (Italia)
Assistere alla premiazione, stipati come sardine, è stato l’ultimo attimo d’amore per questa edizione del GFF. Restano ancora pochi minuti e poi la partenza a passo trascinato, per non lasciare indietro neppure un ricordo: le risate a squarciagola vedendo “Shazam”, l’emozione di rivedere in sala con i bambini della sezione ELEMENTS +6 “il film più bello di tutti” e cioè “Rocca changes the world”. Le note trascinanti dei “The tamarros”, gli stencil e la disponibilità di Ennio Sitta e dei ragazzi dello stand Comix, i trampolieri e gli artisti di strada; il Ludobus e la loro invasione di giochi in Piazza Umberto I; la fila, sempre chilometrica, per il face painting di Weronique Art; i burattini al Parco Pinocchio, dove c’è la riproduzione del messaggio di Truffaut; la festa dei colori; lo sport village in parco Berlinguer, i concerti e le performance tutte; i panini a pochi euro, il caldo micidiale, la Valley e il suo panopticon; la folla, l’entusiasmo, gli abbracci, gli arrivederci: i giffoners, lo spettacolo più bello di tutti (FINE).