Il film-documentario di Agostino Ferrente tenta di proporre un’alternativa al realismo camorrista e alle solite narrazioni sulla periferia napoletana, provando a mettere in primo piano due ragazzi del Rione Traiano e lasciando spazio alla loro voce. Sullo sfondo, la tragedia di Davide Bifolco e il suo impatto devastante sulla vita della sua famiglia, ma anche di tutto un quartiere e dei suoi abitanti.
Le Storie sono potenti. Sono forse la cosa più potente di tutte. E’ sempre stato vero, ma ormai lo sentiamo dire sempre più spesso in questo tempo di “fatti alternativi”, fake news, hype. L’ultimo è stato Tyrion Lannister dal medioevo immaginario di Game Of Thrones: “Non c’è nulla al mondo come una buona storia”.
Una buona storia, per esempio, è quella della Napoli criminale e delle sue periferie, dei suoi quartieri socialmente e antropologicamente altri dove le regole della civiltà sono sovvertite, dove impera un potere oscuro e violento che si può battere solo con la legalità e l’onestà.
Non l’ha inventata Gomorra, non l’hanno inventata Saviano né Libero, neanche la Lega o la propaganda piemontese dell’800, ma ogni giorno qualcuno o qualcosa ci aggiunge un pezzetto.
Non è una storia falsa, anzi, ha degli elementi di verità da non sottovalutare e guai a farlo. Ma è una Storia molto più grande e più forte delle sue verità, e quando è così succede che le Storie con la s maiuscola si mangiano le vite, stritolano le persone e le loro storie con la s minuscola.
La storia delle periferie criminali di Napoli, per esempio, strangola il Rione Traiano. Forse più dell’abbandono istituzionale, della totale carenza di trasporti e servizi, del lavoro che non c’è e che quando c’è chissà com’è, dell’edilizia scadente post terremoto. Forse più della camorra, che se ne pasce con soddisfazione. E’ il realismo camorrista: “there is no alternative”, quindi tanto vale che vi mettete a numero il prima possibile.
La storia delle periferie criminali si è mangiata la vita di Davide Bifolco, perché in un quartiere con un racconto diverso, dei ragazzi senza casco non sono automaticamente scambiati per latitanti, non vengono inseguiti e tamponati con la volante. In un quartiere diverso non si scende con la pistola carica in pugno, non si lascia un sedicenne disarmato e innocente con un buco in petto sull’asfalto.
In un quartiere diverso, la morte di un ragazzo non avrebbe generato un circo mediatico unanime di criminalizzazione, insistenze morbose, calunnie, demonizzazioni. Per non parlare del muro delle Forze dell’Ordine, le dichiarazione ripugnanti, l’inquinamento delle prove, le versioni contrastanti. Ma questo purtroppo succede anche fuori dal Rione Traiano.
La storia delle periferie criminali di Napoli si è mangiata la vita della famiglia Bifolco, togliendogli un figlio, togliendogli la dignità di piangerlo e di chiedere verità e giustizia per la sua morte.
Si è portata via anche Tommaso, fratello di Davide, morto di infarto pochi giorni dopo la notizia della sentenza d’appello che aveva ridotto la pena per il Carabiniere che ha esploso il colpo fatale. Vederlo comparire nel documentario, mentre parla del fratello, è straziante.
La storia di Davide Bifolco si è portata via un pezzo del Rione, un quartiere che di sangue ne ha visto, ma forse così mai.
Forse oggi è impossibile parlare del Rione Traiano senza tenere in conto la Davide e la sua famiglia. Sicuramente è impossibile parlare di Davide senza parlare del Rione Traiano.
Il problema però, è che tipo di storia raccontare. Come spesso accade, è una questione di prospettiva.
Ecco, per parlare di “Selfie” di Agostino Ferrente forse basterebbe fermarsi al titolo.
E’ una storia che parla del Rione Traiano, di un quartiere problematico lacerato dalla storia di un ragazzo che muore. Qual’è la differenza con tutte le altre che abbiamo già sentito sul tema o sulle sue variazioni? Che la prospettiva è ribaltata, come la fotocamera frontale di uno smartphone quando ti fai un selfie. La fotocamera frontale con cui è girato tutto il film da Pietro e Alessandro, rispettivamente aspirante barbiere e guaglione del bar, due ragazzi di 16 anni che Ferrante sceglie per affidargli uno smartphone e con esso le scelte della direzione di un racconto che, evidentemente, da solo non si sentiva di fare. Selfie.
Non è il racconto “delle cose belle del rione invece delle cose brutte”, tema che torna più volte nel film: è il racconto di qualcuno, qualcosa, che prova a narrarsi da sé invece di essere narrato. E’ soprattutto il racconto di un legame affettivo, di un’amicizia fra due esseri umani che vivono un’età in cui tutto è difficile, in un contesto in cui tutto è difficile, tenendosi l’uno all’altro.
Pariandosi addosso, provando a raccontarsi e raccontare, interrogandosi, mostrando la loro vita nel quartiere mettendoci sempre in primo piano brufoli, baffetti adolescenziali, occhi pieni di vita e tristezza. Nei momenti più leggeri, in quelli teneri, in quelli goffi e in quelli dolorosi, come quando parlano con la famiglia di Davide o visitano la sua tomba.
Emergono le cose belle e le cose brutte del quartiere, le storie raccontate e quelle possibili, simili e diversissime, che si affacciano dagli interludi con i video provini che il regista ha fatto ad alcuni ragazzi e ragazze del posto, dai 10 ai 23 anni.
Non è tutto vero e spontaneo: si percepisce, a volte in maniera più decisa e a volte meno, la direzione di Ferrente, o almeno la sua presenza nelle scelte della direzione, se non nella direzione stessa; sicuramente, si intuisce un importante intervento in fase di montaggio del materiale prodotto dai ragazzi. Tutto però è plausibile, tutto (o quasi) è realistico. La realtà, del resto, è una cosa peculiare quando è mostrata con la faccia di chi la racconta in primo piano, e quando chi la attraversa è come ogni ragazzino davanti ad ogni telecamera, un attore spontaneo ed ansioso di mettersi in mostra al suo meglio (o peggio).
In alcuni momenti l’ambiguità vero-non vero può risultare snervante, e ci si ritrova a chiedersi se questa frase o quella scena sono banali perché la realtà delle periferie è proprio come la immagini, soprattutto se non la conosci solo da Gomorra, o perché sono scritte in maniera didascalica. E’ il dubbio che avvolge alcune delle scene più melodrammatiche del film, ma anche alcune delle più toccanti. Come quella che vede al centro Giacomo Leopardi e il bellissimo accostamento tra la famosa siepe dell’ermo colle e quel Rione che da tanta parte del mondo il guardo esclude, nascondendo un mondo di interminati spazi e possibilità da fingersi nel pensiero, chiedendosi se un giorno, nel giro di una vita o due, si potrà alzare la testa oltre quel muro.
‘Selfie’ non è un film perfetto, ma è un film emozionante e dannatamente importante. Non perché è la narrazione anti-Gomorra, questa è una semplificazione buona per i titolisti.
E’ un film importante perché prova a distruggere una narrazione incredibilmente radicata e prova a farlo non sedendosi da una parte e spiegando la propria verità, ma facendola esplodere quella narrazione dall’interno con le parole, la faccia e le mani di chi ci abita dentro, o almeno insieme a loro.
Chi ha provato dall’esterno ad affacciarsi rispettosamente sul Rione Traiano e sulla storia di lotta e attivismo che lo attraversa, soprattutto da dopo la morte di Davide, sa quanto è difficile anche solo osservare senza timore di fare un passo falso. In quel groviglio di contraddizioni, disagio, dignità, dolore, rabbia, lotta e speranza, basta fare un passo falso per sentirti un altro di quelli che non ha capito un cazzo.
Eppure non ci si può girare dall’altra parte. La storia del Rione ci serve, serve a tutte le città che vogliono immaginare un futuro più giusto, in questi mostri di cemento e acciaio che segneranno il destino della nostra società negli anni a venire. Questo forse è il modo giusto di conoscerla: attraverso un’altra storia, una che parla di amicizia, complicità e furore creativo, intrecciata a questa, a volte sullo sfondo e altre in primo piano; secondo quanto scelgono di mostrarci Pietro e Alessandro nei display dei loro smartphone, ma soprattutto secondo quanto vediamo riflesso nei loro sguardi fissi sulla retrocamera. Il film, il Rione Traiano, la storia delle periferie del mondo, alla fine sta tutta lì.
autore: Sergio Sciambra