“Il nuovo disco mi va vederlo come una naturale prosecuzione del lavoro fin qui svolto, in una chiave di ritorno a una certa sacralità dell’esistenza, al femminino sacro, insomma a una specie di risveglio panteistico. Ma anche un naturale tentativo di trascendere i codici di genere, è presente in questo disco. Credo che la psichedelia, così come viene normalmente codificata, abbia raggiunto il suo limite semantico, e andar oltre coi chitarroni riverberati e le voci sottotono (che erano già vecchi 20 anni fa), sarebbe pura ridondanza. Personalmente parlando non sono mai stato interessato ad appartenere a un movimento, sono un individualista per natura. Noi mediterranei abbiamo confidenza con l’eterogeneità, con la metafisica dell’altro. In questo senso il titolo (Maps And Territory) parla della differenza che esiste tra le mappe – fotografie di uno status fisso, eternato – e il territorio, marasma in continuo movimento ed evoluzione senza fine. Noi ci arrendiamo alla descrizione della realtà, ma la condizione concreta dell’esser reale, non può esser mediata da nessuna fotografia o descrizione. Se ne fa esperienza immediata. Vorrei che la musica dei JuJu fosse questa celebrazione della mutazione, della deriva” – Gioele Valenti (aka JuJu).
Ed infondo è così!
Esistono generi musicali figli di un’epoca, della sua (gener)azione, della sua cultura o controcultura o anche, semplicemente, della sua moda del momento.
Esiste però una musica universale, oltre il tempo e lo spazio, oltre (appunto) i generi e le generazioni perché attinge a matrici umane iscritte nella nostra natura, nella nostra coscienza.
Musica che potrebbe tranquillamente essere inclusa in un trattato di J. Frazer o di Lèvi-Strauss.
Musica che ricerca e fa emergere nell’uomo archetipe forme, pensieri, proiezioni, bisogni, paure, e che con l’uomo cammina sulla terra sin da quando bipede ha abbandonato gli alberi per le caverne.
L’esigenza di dover trovare (forse per insicurezza) necessariamente un preciso punto all’interno di un sistema, una nomenclatura per un entropico universo, ha portato, sin dalla notte dei tempi, alla catalogazione: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Genesi -1,19).
Metodo esasperato in una elefantiaca pandettazione, soprattutto quando applicato alle forme espressive d’arte.
Non si può contenere in un nome/genere la manifestazione dell’essere umano; è, appunto, una questione di abuso semantico …
Così è, al di là di ogni considerazione artistica, per il disco “Maps And Territory” – Fuzz Club Records, dei JuJu, un lavoro tanto cerebrale quando viscerale, in cui risuonano forti gli echi di un flusso di coscienza caro al libero pensiero espressivo.
Inevitabili gli accostamenti alla psichedelia più underground di Bevis Frond e del Guild Trip di Kramer, alle industrializzazioni inglesi di fine anni settanta, al kraut tedesco di stampo CAN, ai prodomi post rock dei primi NEU!, alla new wave del 2000 … Siamo tutti nuove persone perché saturi di vecchie conoscenze, seppur trasposte in un magmatico fluire sonoro da panta rei eracliteo; siamo tutti, ad ogni latitudine e longitudine, alla ricerca di noi stessi nell’altro, sia esso trascendente idealizzazione divina, eroe terreno o immanente io dissociato.
E quest’urgenza di ricerca e di movimento muove le linee e i confini musicai sulle mappe e i territori di JuJu.
“Maps And Territory” è interamente suonato dal solo Gioele Valenti, sebbene veda la collaborazione di Goatman alle percussioni su ‘I’m in Trance’ e di Amy Denio ai fiati su ‘Arkontes Take Control’.
In apertura, ‘Master And Servants’, con il suo tempo-contro e spostato e le sue folgorazioni da scosse industriali.
Le percussioni di Goatman in ‘I’m in Trance’ riportano il tutto su stilemi più da psycho-funky (mi tornano in mente i Talking Heads di “Remain in Light”).
‘Motherfucker Core’ è dominata dall’ossessivo giro basso, doppiato dalle distorsioni in strati e da un ritmo minimal da elettronica a tratti “cosmic” … si affacciano prepotenti i NEU! e i CAN in chiave da contemporaneo post punk.
‘If You Will Fall’ fa “cadere” l’ascolto in un ipnotico mare da esopianeta, prima che l’onda non si infranga sulle rocce di una più solida e cadenzata elettronica – hard rock con aperture a tratti “pop”.
‘God is a Rover’ è forse il brano più diretto, complice anche l’ingresso (im)mediato delle voci, di una progressione armonica, di un refrain e di un’apertura che rendono il tutto dolcemente psychocandy.
Chiude il disco ‘Arkontes Take Control’, con i fiati di Amy Denio che, al pari della musica, da soliloquio crescono dapprima in una nevrosi isterica per poi crollare in atmosfere tanto care alle vie intraprese dalla fusion(e) sonora dopo Bitches Brew e verso Supersilent.
Autore: Marco Sica